Il film: Anche io (She Said), 2022. Regia: Maria Schrader. Cast: Carey Mulligan, Zoe Kazan, Patricia Clarkson, Andre Braugher, Jennifer Ehle, Samantha Morton, Ashley Judd. Genere: drammatico. Durata: 125 minuti. Dove l’abbiamo visto: al cinema, in anteprima stampa, in lingua originale.
Trama: La vera storia dell’inchiesta del New York Times sugli abusi sessuali commessi dal produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Può Hollywood realizzare un film dove mette a nudo – scusate il termine – uno dei maggiori scandali di cui essa stessa è stata protagonista? Un quesito che accompagna il nuovo lungometraggio della regista tedesca Maria Schrader, reclutata per portare sullo schermo il libro di Jodi Kantor e Megan Twohey sull’inchiesta che è valsa il Pulitzer a entrambe, e di cui parliamo nella nostra recensione di Anche io.
La trama: tutte contro Harvey
Dopo aver scritto un articolo sulle malefatte sessuali di Donald Trump, il quale ovviamente nega tutto, la giornalista Megan Twohey si prende una pausa dal New York Times per godersi il suo essere neomamma. Nel frattempo, la collega Jodi Kantor, incaricata di indagare sulle molestie sul posto di lavoro, riceve una soffiata sul noto produttore hollywoodiano Harvey Weinstein (già noto per il suo pessimo carattere), e ben presto scopre che egli sarebbe colpevole di numerose aggressioni sessuali che sono state insabbiate per decenni. Con l’aiuto di Megan, Jodi decide di andare fino in fondo, anche se è difficile convincere le donne a denunciare Weinstein senza ricorrere all’anonimato, per timore di rappresaglie come quelle già subite in passato (Ashley Judd, per esempio, è stata ostacolata professionalmente per aver rifiutato gli approcci del boss della Miramax).
Il cast: interpreti d’inchiesta
Le due giornaliste sono interpretate da Carey Mulligan (Megan Twohey) e Zoe Kazan (Jodi Kantor), mentre i loro capi al giornale, Rebecca Corbett e Dean Baquet, hanno i volti di Patricia Clarkson e Andre Braugher. Ashley Judd, una delle vittime delle molestie di Weinstein, appare nei panni di sé stessa, l’unica ad aver accettato di partecipare fisicamente al film in tale veste (Gwyneth Paltrow è presente solo come voce). Il famigerato produttore è interpretato, da lontano e/o di spalle, dall’attore Mike Houston, mentre la voce è il frutto di materiale d’archivio. Laura Madden e Zelda Perkins, due delle vittime britanniche, sono rispettivamente Jennifer Ehle e Samantha Morton. James Austin Johnson, comico americano e noto imitatore di Donald Trump, impersona la voce del magnate all’inizio del film.
Caso di dominio pubblico
C’è un piccolo grande paradosso al centro del film, che si propone come nuovo esempio del filone cinematografico sul giornalismo investigativo di cui, in campo americano, fanno parte titoli come Tutti gli uomini del presidente, Insider – Dietro la verità e Il caso Spotlight (ma anche, per certi versi, L’inventore di favole, sulla vicenda del famigerato bugiardo Stephen Glass). È però, anche, un lungometraggio che punta soprattutto ai premi, e meno al grande pubblico, ed è quindi forse un esercizio pleonastico perché se c’è un’inchiesta di cui addetti ai lavori e cinefili sanno più o meno tutto è proprio quella su Weinstein, che nell’autunno del 2017 ha portato all’esplosione del #MeToo in ambito hollywoodiano, anche se non sempre con risultati forti (basti pensare a David O. Russell, che nonostante accuse di vario genere continua a lavorare con attori e studios di un certo peso). Se negli altri film citati l’esito era conosciuto ma non per forza il percorso per arrivarci, qui viene un po’ a mancare la suspense.
Un urlo di rabbia
Eppure, c’è qualcosa di necessario nella scelta di portare al cinema lo scandalo Weinstein, per come è stato uno spartiacque nelle conversazioni sul tema delle molestie sul posto di lavoro e sul trattamento riservato alle donne, che ancora oggi in alcuni casi viene sminuito, soprattutto a mezzo stampa. Nel caso specifico di questo film, due episodi spiacevoli si sono verificati nei giorni successivi all’uscita americana: un giornalista dell’Hollywood Reporter ha commentato, in maniera decisamente indelicata, che forse solo lo stesso Weinstein, ora in prigione, sarebbe stato in grado di vendere questa storia alle masse; e le riviste di settore hanno riportato la notizia secondo la quale il co-fondatore della Miramax avrebbe gioito del flop della pellicola, come se si trattasse di una vittoria personale dopo cinque anni di resa dei conti.
In tal senso, l’energia furibonda del film, espressa da un cast in stato di grazia (notevole soprattutto Samantha Morton, spesso sottoutilizzata dal cinema americano), è assolutamente degna di attenzione, anche se racconta qualcosa di cui il target è forse anche troppo al corrente. Perché a cinque anni di distanza la ferita, per chi finiva nel mirino di Weinstein, è ancora aperta, e denunciarlo apertamente, anche tramite l’audiovisivo, fa sì che non sia tanto facile minimizzare o addirittura osteggiare le dichiarazioni che hanno contribuito alla caduta di una figura mostruosa sotto più punti di vista.
La recensione in breve
Al netto della suspense altalenante, l'impegno e la rabbia di questa storia vera trovano la loro giusta espressione cinematografica tramite le grandi interpretazioni del cast e la ricostruzione meticolosa dell'indagine fatta dalla stampa americana.
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Voto CinemaSerieTV