Il film: As Bestas – La terra della discordia, 2022. Regia: Rodrigo Sorogoyen. Cast: Denis Ménochet, Marina Foïs, Luis Zahera, Diego Anido. Genere: Thriller. Durata: 137 minuti. Dove l’abbiamo visto: al cinema.
Trama: in un paesino sperduto della Galizia, una coppia medioborghese francese che pratica agricoltura biologica entra in conflitto con due fratelli del luogo, risentiti dal mancato investimento nella zona di una grossa ditta di pale eoliche, cosa per la quale la coppia non ha acconsentito. Seguiranno tensioni e minacce.
Se il nuovo film di Rodrigo Sorogoyen, vincitore di 9 premi Goya tra cui miglior film e regia, presentato anche a Cannes 2022, fosse stato girato negli USA, con le cadenze di un thriller convenzionale, magari con qualche star nei ruoli principali, forse questo tesissimo e ipnotico thriller-western rurale non sarebbe uscito così in ritardo e così in sordina nel nostro paese, dove non ha ricevuto alcuna attenzione mediatica, e dove verrà fruito in sale vuote, in cui non durerà a lungo. Peccato perché il sesto, bellissimo, lungometraggio di Sorogoyen meriterebbe ben altro destino. Andiamo dunque a vedere i meriti di questa pellicola nella nostra recensione di As Bestas – La terra della discordia.
La trama: cattivi vicini
Una coppia francese medioborghese, mediamente colta, Olga e Antoine Denis (ex-insegnante), si è stabilita ormai da due anni in uno sperduto villaggio della Galizia, in Spagna, per praticare agricoltura sostenibile e ristrutturare case in rovina, destinandole a persone del luogo. Il clima è però già teso con alcuni abitanti del luogo, in particolare con i fratelli Xan e Lorenzo Anta che non hanno digerito il fatto che Antoine abbia votato contro l’installazione di pale eoliche nella zona, cosa che avrebbe permesso ai fratelli di guadagnare una cospicua somma e riscattarsi da una vita di povertà a sacrifici. Da qui un’escalation di minacce e tensione sempre più insostenibili.
Il mito ancestrale messo in scena
Ispirato a fatti realmente avvenuti in un paesino della Galizia nel 2010, su cui non diremo nulla per evitare spoiler, il film di Sorogoyen parte con una sequenza molto intensa, dalla bellezza ancestrale e dalla forte valenza archetipica: la messa in scena, con un ralenti ipnotico, della rapas bestas, ovvero un rituale con cui vengono rasati i cavalli, per poi marchiarli, dopo averli immobilizzati a mani nude. Una scena cruda e al tempo stesso sospesa in un tempo mitico, che sembra esistere al di fuori del racconto, ma che invece avrà una valenza simbolica molto importante nella vicenda.
I racconti sulle origini di un popolo o di una tribù sono spesso caratterizzati da un sacrificio a spese di un caprio espiatorio, evento mitico alla base della creazione di molte civiltà (Caino e Abele su tutti), che viene riprodotto nel corso di cerimonie e rituali. Schiere di antropologi e studiosi di storia delle religioni hanno dedicato volumi a queste pratiche al confine tra il folklore, il mito e la religione. La scena iniziale di As Bestas mette in scena con vividezza e cruda intensità questo passato mitico e violento, dando così un’impronta precisa a tutto il film.
Una tensione che non cala mai
Non inganni però la ieraticità della prima sequenza: sebbene il film non segua i ritmi di un thriller convenzionale, la tensione sotterranea che si respira per le due ore di durata è reale e palpabile e non fa staccare mai gli occhi dallo schermo. Non è un mistero che i primi riferimenti cinematografici (da cui Sorogoyen si smarca però brillantemente) che saltano alla mente siano Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah e Un tranquillo weekend di paura (1972) di John Boorman, ovvero due capisaldi sul conflitto tra Cultura e Natura, rappresentati da cittadini spesso supponenti e campagnoli violenti che non sopportano la malcelata arroganza di chi ‘invade’ il proprio territorio.
In questi film il rapporto con la Natura primeva e accogliente, ma anche selvaggia e violenta, diventa catalizzatore di terribili tensioni sociali che trovano nella violenza l’unico sfogo possibile. Ma se in Peckinpah la rappresentazione della violenza era sottolineata da eleganti ralenti e da un montaggio spezzettato e serrato, in Sorogoyen è tutto più trattenuto, sia a livello di messa in scena che di regia e montaggio. Il regista ricorre a piani-sequenza di intensità lacerante, nonché a movimenti di macchina precisi e inesorabili, a sottolineare la tensione crescente. Le incredibili performance degli attori, dirette con maestria, alternano momenti di dialoghi taglienti a silenzi e sguardi ferini, soprattutto negli occhi minacciosi di Luis Zahera e in quelli inebetiti di Diego Anido, che incarnano egregiamente i due fratelli Anta. Denis Ménochet (che ricordiamo in Bastardi senza gloria) nel ruolo di Antoine è un gigante gentile, nei cui occhi miti passa l’adorazione per la moglie ma anche la rabbia di chi subisce soprusi ingiusti. Lo sguardo di Sorogoyen non è manicheo ma prende in esame le ragioni degli uni e degli altri, mettendo lo spettatore in una posizione morale molto delicata.
Una virata inaspettata
Avviene poi una virata narrativa imprevedibile che vede Olga, la moglie di Antoine interpretata da una strepitosa Marina Foïs, prendere le redini della scena e imporre i ritmi della pazienza e della costanza di un amore sincero e ostinato all’ultima parte del film. Ecco che da un thriller rurale si passa alla rappresentazione viva a intensa di sentimenti che stanno alla base della vita, senza però perdere un grammo di quella tensione sotterranea che, come dicevamo, percorre tutto il film. Di più non possiamo aggiungere, se non di correre subito a vederlo.
La recensione in breve
Il film di Sorogoyen trascina lo spettatore in una spirale di tensione secondo le cadenze di un originalissimo thriller rurale, per poi prendere una virata inaspettata, senza però mai calare la tensione necessaria. Un film davvero imperdibile.
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Voto CinemaSerieTV