Il film: Bardo (o falsa crónica de unas cuantas verdades), del 2022. Regia di Alejandro González Iñárritu. Cast: Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani.
Genere: drammatico. Durata: 174 minuti. Dove lo abbiamo visto: al Festival di Venezia 2022.
Trama: Una famoso documentarista torna nel suo paese natale, il Messico, dopo aver vissuto molti anni a Los Angels. Lì affronterà una profonda crisi esistenziale e dovrà fare i conti con i traumi del proprio passato.
Una delle chiavi di lettura del nuovo film di Alejandro González Iñárritu, presentato in Concorso a Venezia 79, sta proprio nel suo titolo, in originale Bardo (O falsa crónica de unas cuantas verdades), “Una cronaca falsa di alcune verità”. È con questa frase in mente che ci si deve approcciare alla visione, perché quello che ci aspetta sullo schermo è un flusso di immagini e sequenze che appartengono tanto al mondo del sogno quanto a quello del reale, che si mescolano, si fondono e si sovrappongono, trascinando lo spettatore in un racconto in cui l’immaginazione e la coscienza del protagonista si traducono in elementi tangibili e costantemente presenti in scena.
Come vedremo in questa recensione di Bardo, l’ultima intensa e commovente opera di Iñárritu è un viaggio nella vita e nell’interiorità del suo protagonista Silverio, alter ego con cui il regista condivide traumi, aspirazioni ed un difficile rapporto con il proprio passato e con le proprie origini. Il mondo che Iñárritu plasma sullo schermo è visivamente sorprendente, un susseguirsi di scene dall’indiscutibile bellezza formale ma al contempo dalla grande profondità narrativa: difficile restare indifferenti durante le quasi tre ore di girato, in cui si traducono in immagini temi che risuonano con il vissuto dello spettatore, anche se la sua storia personale è completamente diversa da quella dell’autore. Come si ridefinisce la nostra identità lasciando il luogo dove siamo nati? Che ruolo hanno le nostre radici nel determinare chi siamo? Il successo è un dono o un fardello? E, ancor più intimamente, come si sopravvive alla perdita di un figlio?
La trama: Silverio torna in Messico
Il protagonista di questa storia è Silverio (Daniel Giménez Cacho), documentarista messicano famoso in tutto il mondo che da anni vive a Los Angeles. L’uomo torna in Messico, per un breve periodo, con la sua famiglia: lì andrà incontro a una profonda crisi esistenziale, scontrandosi con una realtà politica e sociale che ormai non gli appartiene, confrontandosi con il vissuto dei suoi connazionali che “non ce l’hanno fatta”, e affrontando i traumi del passato, in particolare la perdita del figlio neonato, Mateo.
Un prestigioso premio che sta per ricevere, inoltre, lo porterà a riflettere su un percorso di vita che, sotto la patina del successo e della realizzazione lavorativa, nasconde una profonda insoddisfazione, che nemmeno chi gli è più vicino è in grado di comprendere.
Un popolo di migranti e sognatori
Come vi anticipavamo, sogni, paure, e ricordi si mescolano in un flusso continuo, invadendo la percezione della realtà del protagonista e traducendo il disagio che prova in immagini e visioni con cui interagisce e comunica. A emergere, in particolare, il legame di amore e odio con il suo paese d’origine. Il Messico per Silverio è tanto la patria che ama profondamente, e che non permette a nessuno di criticare, quanto un paese disprezzabile, che non gli ha permesso di realizzarsi e che lo ha costretto a migrare negli Stati Uniti.
Affianco al percorso di vita del protagonista, un immigrato di “prima classe”, ci sono poi le storie di quelle persone costrette a lasciare la propria casa per non morire, che perdono la vita attraversando la frontiera, i desaparecidos e le vittime del narcotraffico. Il confronto si traduce per Silverio in un profondo senso di colpa, che lo porta a dedicare parte del suo lavoro come documentarista all’indagine di queste realtà così tanto diverse dalla sua.
Il peso della Storia
Questo è un paese morto in cui nessuno muore più.
Tra gli elementi più presenti nel flusso sogno/veglia vissuto da Silverio c’è anche la memoria storica del Messico, che si fa strada nella narrazione in sequenze emotivamente molto potenti: essere figli della Conquista, di un evento traumatico di tale violenza e impatto, è diventato parte della coscienza collettiva del popolo messicano, e questo si traduce in immagini persistenti durante la parabola di presa di coscienza vissuta dal protagonista.
In un momento in particolare del film (che si apre con un’impressionante sequenza che mostra quanto il fenomeno dei desaparecidos stia devastando il Paese), si mescolano passato e presente, riportandoci proprio al periodo della Conquista spagnola. Silverio e Hernán Cortés si interrogano, fumando una sigaretta in piedi su una montagna di cadaveri, su che cosa significhi “essere” messicano: i conquistatori sono tanto i padri fondatori del Messico moderno (sono i “genitori” di un popolo meticcio) quanto i suoi carnefici.
Ma è possibile determinare una realtà che sia univoca per tutti quando anche il resoconto del passato è sempre una questione di prospettive? Anche un documentario, per quanto obiettivo cerchi di essere, è legato al punto di vista di chi lo realizza. Allo stesso modo il racconto (auto)biografico di una vita, quella vissuta da Silverio e quella del regista che traspare nel film, altro non è che una visione filtrata e soggettiva. E non si allontana poi così tanto da un sogno, che è ugualmente una visione rielaborata dal nostro inconscio della realtà.
Il giusto finale?
Inutile sottolineare quanto Bardo sia un film ambizioso: l’opera più intima e personale di Iñárritu è caratterizzata da una serie di sequenze di grande fascino e profondità, a cui ci si trova a ripensare più volte, anche molto dopo essere usciti dalla sala. Citiamo, ad esempio, quella iniziale: il regista è capace di tradurre un momento particolarmente drammatico in una scena di una forza unica, con un’ironia inaspettata ma mai fuori luogo.
A colpire, però, è come la potenza visionaria del film sembri venire a mancare nei suoi ultimi minuti: una volta data la chiave di lettura della storia, la prolungata conclusione è trascinata e ripetitiva, risultando quasi anticlimatica rispetto a tutto ciò che è venuto prima. Una chiusura che non rovina l’esperienza di visione, ma che potrebbe deludere se ci si aspetta un finale di maggiore impatto.
Detto questo, Bardo è comunque un viaggio che merita di essere intrapreso, che non può non coinvolgere e commuovere. La sensazione è quella di tornare in un luogo familiare, già visitato: il territorio comune dell’immaginazione e del sogno, dove i ricordi, quelli più tristi ma anche quelli più belli e indimenticabili, riprendono vita.
La recensione in breve
Bardo, il nuovo film di Alejandro González Iñárritu, è un opera unica e travolgente, in cui realtà, sogni e ricordi si mescolano in un flusso continuo. Un'opera caratterizzata da sequenze di grande potenza emotiva ed intensità.
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