Il film: Blonde, del 2022. Diretta da: Andrew Dominik. Cast: Ana de Armas, Adrien Brody.
Genere: drammatico. Durata 166 minuti. Dove lo abbiamo visto: alla Mostra del Cinema di Venezia, il lingua originale.
Trama: Norma Jean è la donna che diventerà la diva Marilyn Monroe: la sua vita però è costellata di tragedie, dall’abbandono dei genitori ai numerosi aborti.
Chi ha letto il romanzo omonimo di Joyce Carol Oates, o ha dato semplicemente uno sguardo ai due trailer usciti di Blonde, l’ultimo film di Andrew Dominik presentato in Concorso a Venezia 79, non potrà approcciarsi alla visione cercando un convenzionale biopic, un mero resoconto della vita di una delle più grande dive della storia del cinema, Marilyn Monroe. Come vedremo in questa recensione di Blonde, il film di Dominik si libera dei dettami narrativi più classici, trasportando lo spettatore nella mente della sua protagonista, raccontandoci la storia della sua vita attraverso la sua prospettiva, attraverso la sua personale percezione della realtà e la sua emotività.
La vita di Marilyn Monroe che scopriamo nel film ha i contorni di una tragedia, l’ascesa al successo corrisponde a un progressivo sprofondare all’inferno, inferno che ha però origine nella sua infanzia, nel rapporto con una madre mentalmente instabile e con un padre che non ha mai conosciuto. Blonde ci fa percepire il dolore della sua protagonista e ce lo fa vivere, senza darci tregua, raccontandoci il dramma umano di un personaggio la cui immagine pubblica era completamente separata da quella privata.
La trama: da Norma Jeane a Marilyn Monroe
La narrazione si apre raccontandoci uno spaccato della vita di una giovanissima Norma Jeane, una bambina in balia degli scatti violenti di sua madre (Gladys Pearl Baker), che addirittura arriva a trascinarla nel bel mezzo di un incendio scoppiato sulle colline di Hollywood, e che soffre l’assenza del padre, di cui conosce solo una fotografia. Vista l’incapacità della madre di crescerla, Norma Jeane verrà accolta da una vicina, che poi però l’abbandonerà in orfanotrofio.
Diventata adulta, e iniziata una carriera da modella per riviste, Norma (Ana de Armas) – che ormai è conosciuta come Marilyn Monroe – cerca di sfondare come attrice; ogni piccolo passo avanti è però dovuto alle buone parole di produttori e personalità dell’industria, che pretendono però in cambio molto di più che la sua mera gratitudine. Con l’arrivo del successo arrivano anche diversi amori, il primo con la coppia di amici Edward G. Robinson Jr e Charles Chaplin Jr., figlio del famoso attore del cinema muto, con cui Norma porta avanti un menage a trois ma anche una sincera amicizia.
In seguito ci sarà poi il breve matrimonio con l’ex campione di baseball Joe DiMaggio (Bobby Cannavale) e poi quello con il drammaturgo Arthur Miller (Adrien Brody). Ma sono i numerosi aborti in pochi anni – sia naturali che obbligati e subiti dalla donna – a marchiarne la vita e a trascinarla in una spirale di lutto e disperazione, spingendola a un abuso di medicinali che si farà sempre più massivo e che, infine, la porterà alla morte.
Una spaccatura tra pubblico e privato
Per parlare del film di Andrew Dominik non possiamo che partire dalla dualità che il regista (e che l’autrice del libro prima di lui) attribuiscono al personaggio principale: la protagonista è sia Norma Jeane che Marilyn Monroe, una spaccatura tra identità pubblica e privata, che a tratti si fa più sfocata, altre decisamente più netta. Per trasmettere allo spettatore un dualismo così persistente il regista decide di fare uso di diversi formati cinematografici, che tagliano a più riprese lo schermo, e di passare spesso dal colore al bianco e nero. In questo modo la Marilyn che è creatura dello schermo straborda continuamente nella vita di Norma Jeane, permettendoci anche di capire come lei percepisce se stessa – un essere ibrido tra le due identità – e come la percepisce il resto del mondo, che la conosce solo attraverso i suoi film.
La separazione tra le due identità, Norma e Marilyn, viene resa ancor più evidente (tanto a noi spettatori come alla protagonista stessa) nel rapporto che instaura con i suoi due mariti, Joe DiMaggio e Arthur Miller. Il primo arriva a odiare Marilyn, perché è quella che è “amata” anche dal resto del mondo, diventandone estremamente geloso. Nel film troviamo infatti il notissimo episodio delle violente percosse subite dalla donna, dopo che il marito l’aveva vista – insieme a centinaia di fan in delirio – girare la famosa scena della gonna che si alza in Quando la moglie è in vacanza.
Arthur Miller, al contrario, sembra essersi innamorato proprio di Marilyn, si accorge di lei vedendola recitare e la vuole spensierata, briosa, felice (come affermerà poco dopo il matrimonio: “Così diversa dalla sua prima moglie”). Chi delle due è la “vera” Marilyn? Nessuna delle due ed entrambe, un’identità frammentaria e frammentata che incontriamo in sequenze in cui la realtà si mescola alle diverse esistenze che la donna viveva sul grande schermo.
La regia di Andrew Dominik
Abbiamo già accennato a come Dominik porti in scena il mondo interiore “diviso” della protagonista con sapienti scelte di regia, come il cambio di formato e il passaggio dal colore al bianco e nero. Ma la fantasia nella messa in scena non si limita a questo: il film infatti è costellato di sequenze dal grande impatto visivo, da quella meravigliosa del menage a trois – in cui i corpi si fondono e il letto su cui i tre amanti si trovano si trasforma in una cascata – a quella della morte, nel finale, in cui due anime che convivono nel medesimo corpo si fanno tangibili e reali.
Blonde è un film ricchissimo, fatto di scene di enorme potenza che ci guidano nella vita e nella mente di una donna estremamente tormentata, costringendoci a percepire la realtà esclusivamente dalla sua prospettiva e facendoci così provare il suo medesimo dolore.
Una madre senza figli
Al cuore della tragica esperienza di vita di Marilyn troviamo i numerosi aborti da lei vissuti (e subiti), che scandiscono il tempo della narrazione rendendo la mente della donna sempre più straziata e instabile. Diventando, poi, l’ennesimo esempio di dualismo interiore da lei vissuto: essere madre è per lei sia un sogno che non vede l’ora di realizzare – essendo stata abbandonata sia da sua madre che da suo padre, sente il bisogno di dare a un figlio quello che lei non ha avuto – che una possibilità carica di terrore: e se la malattia mentale della donna fosse ereditaria? E se finisse per comportarsi con suo figlio come è stato fatto con lei?
Marilyn si ritrova a dialogare con i propri bambini che non nasceranno mai e – anche se non ci ha particolarmente convinto la scelta di far interagire con lei i feti all’interno del suo grembo – siamo in grado di percepire ancora di più la drammaticità del momento, e come il peso del senso di colpa stia avendo un effetto devastante sulla sua psiche. Sarà infatti dal secondo aborto che le cose precipiteranno irrimediabilmente, e al tutto si aggiungerà anche una dipendenza sempre più forte da farmaci.
L’entrata in scena di John Kennedy
Tra i momenti più controversi del film, sicuramente tra quelli che verranno maggiormente criticati, c’è l’esplicita scena a sfondo sessuale tra Marilyn e John Kennedy, in cui la donna viene trasportata quasi di peso nella camera d’albergo del presidente. Una sequenza che colpisce particolarmente, ma che lascia un po’ insoddisfatti per il ruolo veramente marginale in cui viene relegato l’affaire con i Kennedy, che nel film viene rappresentato come l’ultimo colpo di grazia (insieme all’ennesimo aborto) subito dalla donna, che morirà di lì a poco.
È in questa quarta relazione “amorosa” che scopriamo un’ulteriore identità data a Marilyn dagli uomini della sua vita, ossia la mancanza stessa di un’identità, non è più né Marilyn né Norma Jeane, ma un “pezzo di carne” (come lei stessa si definisce) che viene portato di peso in una stanza d’hotel.
Il cast: Ana de Armas camaleontica
Ana de Armas risplende nel ruolo di Marilyn Monroe, diventando un tutt’uno con la diva e dando umanità e spessore a Norma Jeane: l’attrice cubana adotta le movenze e il tono di voce di Marilyn, ne assorbe i manierismi e dà vita a tutto quello che Marilyn era dentro e fuori lo schermo, trasformandosi in lei ma senza farsi mai sovrastare completamente.
Il resto del cast, seppur validissimo – in particolare Julianne Nicholson nel ruolo della madre Gladys Pearl Baker e Adrien Brody in quello di Arthur Miller – finisce per essere schiacciato dalla magnetica presenza della de Armas. L’attrice riporta in vita un personaggio che nel nostro immaginario non morirà mai, ma della cui morte, come spettatori – quelli di oggi come quelli di allora -, veniamo ritenuti responsabili, mentre osserviamo passivamente la tragedia di una donna che è stata costretta nel ruolo di oggetto del desiderio, e che per questo ha finito per perdere se stessa.
La recensione in breve
La tragica esistenza di Marilyn Monroe prende vita nel film di Andrew Dominik, ricco di sequenze dall'impressionante potenza visiva. La doppia identità della donna, che è al tempo stesso Norma Jeane e Marilyn Monroe, viene portata su schermo da una splendida e camaleontica Ana De Armas.
-
Voto CinemaSerieTV