Il film: Denti da squalo, 2023. Regia: Davide Gentile. Cast: Tiziano Menichelli, Stefano Rosci, Viriginia Raffaele, Claudio Santamaria, Edoardo Pesce. Genere: Drammatico, thriller. Durata: 100 minuti. Dove l’abbiamo visto: in anteprima stampa.
Trama: Walter ha tredici anni e ha appena perso il padre. Mentre vaga lungo il litorale romano si imbatte in una villa abbandonata la cui piscina custodisce un segreto.
Il caldo dell’estate, una villa immersa in una macchia verde nel mezzo del litorale romano, una piscina grande, grandissima che dentro custodisce qualcosa di impensabile. E poi Er barracuda, Er corsaro, nomi e nomignoli. Denti da squalo fin da subito si mette sulle spalle il mantello della favola – una «favola moderna», come dice Virginia Raffaele.
La sua storia parte da lontano, da un progetto dei due sceneggiatori Valerio Cilio e Gianluca Leoncini rimasto chiuso nel cassetto per diversi anni. Poi la vittoria al Miglior soggetto e sceneggiatura del Premio Solinas, l’incontro con Lucky Red e la Goon Films di Gabriele Mainetti ed il sodalizio con il regista Davide Gentile, al suo esordio alla regia di un lungometraggio. E allora, com’è il film? Vediamolo insieme nella nostra recensione di Denti da squalo.
La trama di Denti da squalo
Walter (l’esordiente Tiziano Menichelli) ha perso da poco il padre. Denti da squalo ce lo fa capire nei primissimi istanti, quando il ragazzino si aggira sulla spiaggia, spaesato e ancora vestito con l’abito nero del funerale. Dietro di lui c’è sua madre Rita (Virginia Raffaele), che del film farà un po’ il pendolo morale, lo spartiacque tra una vita dignitosa e di dignità e il baratro della perdizione.
Walter un giorno si immerge in una macchia boschiva non lontano da casa sua. Sembra essere distante anni luce da quel litorale popolare e a prima vista un po’ desolante in cui tutto sembra immobile. Qui trova un luogo da sogno: un giardino che custodisce una grande villa, una torre misteriosa e un’ampia piscina. Al suo interno c’è qualcosa di inimmaginabile: uno squalo.
Il ragazzino torna nei giorni successivi e fa la conoscenza dello spaccone Carlo (un altro esordiente, Stefano Rosci), con cui stringe amicizia. Da qui prende il via un’avventura sulla quale è calata la lunga ombra di un’assenza paterna, che si porta appresso anche gli spettri di un passato mai davvero reciso e che affaccia sul baratro di un mondo in cui fare la scelta sbagliata è questione di un istante.
Un cinema di padri che lasciano detriti
Denti da squalo è un cinema di padri che non ci sono più. È un tema ricorrente nel cinema della contemporaneità, su cui anche in Italia si sta riflettendo molto con le nuovi voci – pensiamo al cinema dei fratelli D’Innocenzo. La figura della virilità forte è stata disarcionata dal centro del tutto di cui è stata padrona per tanto, troppo tempo. Ora è il momento di mettersi a ragionare sui perché di questa malsana egemonia, di mettersi a spazzare i detriti lasciati e di succhiare via il veleno che nell’organismo ancora circola con una certa insistenza.
Quello di Denti da squalo è quindi un cinema che parla anche di figli, come appunto lo è Walter, appeso nel mezzo di un dilemma che lo tiene ancorato alla figura di questo padre (Claudio Santamaria, in scena per alcuni flashback, non proprio riuscitissimi) dal passato tanto nebuloso quanto fascinoso. Non è che magari ha proprio a che vedere con la storia che sta dietro questo luogo abbandonato? E allora che fare, provare a seguire quelle orme, lasciarsi tentare dal richiamo di quella virilità che ulula da sotto terra?
Una favola che si sporca
Ecco, qui il film edifica quello che in sostanza è un coming of age che dalla sua attraente e peculiare premessa trae però poca spinta. L’aspetto favolistico in cui è calata tutta la vicenda di Walter, che si attorciglia attorno all’elaborazione della propria condizione – personale e generazionale – di orfano, è il vero valore di Denti da squalo. Ma questa patina che evoca Peter Pan non è messa più di tanto in dialogo con quella che poi ne rappresenta la brusca interruzione e che chiama il suo protagonista a crescere tanto e velocemente.
Quando Denti da squalo si contamina con lunga mano della micro criminalità di periferia (un dazio che prima o poi tocca scontare in tutte le opere che si inoltrano nei cerchi concentrici più esterni delle grandi città) perde parte del suo guizzo. Non è, purtroppo, l’intenzione di resa di quella rottura dell’idillio che deve arrivare e che in effetti arriva, quanto un procedere in maniera abbastanza rigida e schematica nello scandire l’incontro con la gang, i lavoretti, i conflitti di Walter con la madre.
Appesi nel mezzo
Si viene sbalzati fuori dai discorsi “da grande” messi in bocca al piccolo Walter, da certe dinamiche davvero troppo trite e ritrite, da un accompagnamento musicale che satura senza tregua lo spazio di alcuni silenzi che così diventano inspiegabili cacofonie. Il film di Gentile non si prende il giusto tempo per respirare e quando lo fa, come nell’occasione dell’incontro con il personaggio di Edoardo Pesce (in poche battute fa schizzare in alto il lato favolistico più sporco e barbaro), è forse tardi. Anche perché in coda si aggiunge poi un finale sensato ma troppo macchinoso, troppo mostrato alla camera, un po’ come avviene lungo tutta l’opera con lo squalo a cui sono riservate un numero di inquadrature eccessive ed insistite per quella che è l’aura che il film vuole evocare.
Insomma, Denti da squalo si trova nel mezzo così come avviene per il suo piccolo protagonista. Da una parte imbocca in modo decisamente intrigante l’idea della sospensione, del blocco, della riflessione grazie ad azzecatissimi incipit, lavoro sulle location e progressivo disvelamento del mistero. Poi si concede al dire e fare le cose battendo sentieri già noti, schiacciandoci addosso a un dramma che vuole farsi crudo, urlato, che vuole strappare il velo dell’innocenza e allora forza la mano alla narrazione e ai suoi meccanismi da racconto incantato.
La recensione in breve
Denti da squalo è un'opera prima che parte da un'affascinante idea di favola moderna. Funzionano l'incipit, il lavoro sulle location, il mistero da svelare un poco alla volta. Poi però quella patina si perde perché il film si mostra troppo, reitera su dinamiche trite e ritrite, si fa macchinoso e meno spontaneo.
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