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Home » Film » Recensioni film » Fabian Going to the Dogs, la recensione: un film inafferrabile

Fabian Going to the Dogs, la recensione: un film inafferrabile

La recensione di Fabian Going to the Dogs, film di Dominik Graf sullo sfondo della Berlino degli anni Trenta, con un perfetto Tom Schilling.
Alessio ZuccariDi Alessio Zuccari18 Agosto 20224 min lettura
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fabian going to the dogs cover
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Il film: Fabian Going to the Dogs (id.) del 2021. Regia: Dominik Graf. Cast: Tom Schilling, Saskia Rosendahl, Albrecht Schuch.
Genere: drammatico, romantico. Durata: 172 minuti. Dove lo abbiamo visto: anteprima stampa, in lingua originale.

Trama: Fabian lavora nel reparto pubblicitario di un’azienda di sigarette. Di notte frequenta locali assieme all’amico Stephan e vive una vita spericolata. Un giorno incontra la giovane attrice Cornelia e se ne innamora. Ma questa tormentata storia d’amore sembra non essere destinata a durare a lungo.


È la Berlino del 1931. La Repubblica di Weimar sta esalando il suo ultimo respiro e la Germania è sempre più avvolta dalla febbre nazista. Su questo sfondo decadente prende il via l’ultimo film di Dominik Graf in lizza nel concorso del Festival di Berlino 2021.

Come vedremo nella nostra recensione di Fabian Going to the Dogs, si tratta di un’opera anarchica e probabilmente anche troppo esasperata, riflesso introspettivo di un intero mondo che oscilla sull’orlo di un baratro imminente dove il protagonista Fabian, un intenso Tom Schilling, cerca di trovare la propria via nel dedalo di un amore tormentato.

La trama di Fabian Going to the Dogs

fabian going to the dogs

Un’anima, quella di Fabian, persa a metà tra il ricordo dell’oscuro e recente passato di una Prima Guerra Mondiale le cui conseguenze faranno da propulsore all’avvento del nazionalsocialismo, e un’aspirazione all’arte soffocata dal conto sempre in rosso e ritmi di vita insostenibili. E l’incontro con la giovane attrice Cornelia (Saskia Rosendahl), di cui si innamora, non fa che allargare il vuoto che gli si sta aprendo sotto i piedi, mentre anche il suo irrequieto amico Stephan (Albrecht Schuch) si mostra sempre più insofferente e incontenibile nei confronti della realtà che lo circonda.

Graf incornicia questa esistenza sincopata con un formato in 4:3 dalla grana sporca, imprecisa, ereditando dal travagliato romanzo di Erich Kästner da cui Fabian Going to the Dogs è tratto una natura del racconto fatta di tagli rapidi, improvvise sterzate, estrema mobilità della macchina da presa e numerosi inserti di repertorio e didascalie sovrimpresse.

Una caratura stilistica che si prende il proprio spazio

fabian going to the dogs albrecht

Una scelta stilistica ben marcata, che si fa accompagnare lungo tutta la pellicola da un voice over insistente che però non fa altro che sottolineare ciò che vediamo già a schermo. Ed è chiaro l’intento di Graf, che cura anche la sceneggiatura assieme a Constantin Lieb. Caricare e sovraccaricare fino allo sfinimento l’esposizione di una storia d’amore in fin dei conti abbastanza convenzionale, elaborandone però il sottotesto della prossima deflagrazione politica e sociale con questa progressiva caduta delle coordinate a cui il forsennato connubio tra regia e montaggio ci costringe.

Il problema sorge nel momento in cui la struttura narrativa del film si disvela poco a poco troppo esile per reggere un’impalcatura che si prende uno spazio tutto suo, impoverita pure da una messa in scena visivamente contenuta e da dialoghi che si fermano sulla punta della lingua per poi non andare oltre. Non bastano le abbozzate e quasi caricaturali personificazioni di una borghesia immorale e annoiata, non bastano gli strappi di un quotidiano che ai sogni sostituisce le svastiche che iniziano a comparire sui muri e sulle braccia.

La forma sopra il contenuto

fabian going to the dogs

Insomma, la forma non viene messa in funzione e prende il sopravvento su un contenuto che, a guardar bene, si limita a suggerire qualche spunto qui e lì e poco altro. Eppure la durata di Fabian Going to the Dogs è di quelle importanti: il film sfiora le tre ore, trasformandosi in un fluviale trattato che finisce per galleggiare nel mezzo di questo triangolo di personaggi i cui rapporti e destini vorrebbero farsi anticamera di un’elaborazione più profonda, ricercata, agognata, ma mai raggiunta in una maniera che possa poi giustificarne il grande sforzo a cui l’opera pone di fronte.

Se la visione può valerne la pena è per la buona alchimia instaurata da questo trittico di personaggi, che a tratti funzionano nel loro interagire mentre nel frattempo scalciano disperatamente via miseria e disillusione. Ma al di là di questo, Fabian Going to the Dogs si fa risucchiare dalla sua stessa inafferrabilità, schizzando ovunque nei bordi dello schermo senza che al proprio centro mantenga un punto fermo. Quello che poteva essere il suo punto di forza si tramuta infine in una spada di Damocle.

La recensione in breve

5.0 Esasperato

Fabian - Going to the Dogs è il fluviale racconto di quasi tre ore di una tormentata storia d'amore nella Germania dei primi anni Trenta, dove sullo sfondo della schizofrenica esistenza del protagonista Fabian si muove una società prossima al collasso. Ma lo stile marcato e anarchico del film non riesce a mettersi in funzione di un contenuto esile, che rimane indietro e finisce per essere soffocato dalla sua stessa forma.

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