Il film: Folle d’amore: Alda Merini, 2024. Regia: Roberto Faenza. Genere: Drammatico, biografico. Cast: Laura Morante, Federico Cesari, Rosa Diletta Rossi, Giorgio Marchesi, Mariano Rigillo, Gianluca Bottoni, Sofia D’Elia, Luca Cesa, Alessandro Fella, Francesca Beggio, Ludovico Succio. Durata: 101 minuti. Dove l’abbiamo visto: Rai1.
Trama: Alda ha il dono di scrivere poesie, la madre non comprende il suo talento e il padre non lo incoraggia abbastanza. La mancata ammissione al liceo trasforma la sua vocazione in ossessione.
Alda Merini è stata una delle più grandi poetesse che l’Italia abbia conosciuto. A renderla grande sono stati i suoi versi, certo, ma soprattutto la profonda verità di ogni singola parola scritta e declamata. Tra gli spazi bianchi delle sue liriche, in mezzo ai silenzi, si nascondeva la vita di Merini, gli amori, i dolori, l’angoscia. Roberto Faenza proprio a lei ha dedicato un film televisivo, Folle d’amore: Alda Merini, che pur rispettando nelle premesse la potenza della storie della poetessa, non riesce fino a in fondo a farci entrare nel suo mondo. Un’opera intermittente, che procede per salti e a sprazzi, che ci delude.
Nonostante le belle interpretazioni di Laura Morante, Sofia D’Elia e Rosa Diletta Rossi che vestono i panni di Alda Merini nelle tre fasi della vita, adolescenza, maturità e vecchiaia. Proviamo a spiegarlo nella recensione di Folle d’amore: Alda Merini.
In punta di penna
1997, Milano. Una casa disordinata, piena di cose accatastate, oggetti alla rinfusa, muri usati come taccuino. È lo spazio caotico in cui Alda Merini vive. Anima persa, infantile nel senso più bello della parola. La conosciamo mentre prova a vendere un libro di poesie dopo un reading in un locale. Qui conosce un ragazzo, Arnaldo che in poco tempo diventa amico e confidente. Lo studente accudisce Alda e pian piano diventa il testimone della sua vita. Raccoglie tutte le confidenze che la donna gli regala durante gli appuntamenti quotidiani nella sua casa di Ripa di Porta Ticinese, sui Navigli.
Dal grande desiderio, fin da piccola, di diventare “un poeta”, all’amore per Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo, entrambi sposati e molto più anziani di lei. Passando per il matrimonio, la nascita delle figlie e, soprattutto, i 12 anni passati in manicomio a causa di quello che oggi è considerato disturbo bipolare. Ma che all’epoca veniva semplicemente chiamato pazzia. Una condizione connaturata agli artisti visionari e alle donne folli per amore.
Scatenar tempesta
Sono nata il 21 a primavera
Ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle
Potesse scatenar tempesta
Potesse scatenar tempesta
Non si può rimanere impassibili davanti alla grandezza umana e artistica di Alda Merini, una donna a cui guardiamo con profonda tenerezza e ammirazione, che ha vissuto sulla sua pelle l’orrore del manicomio, quando la malattia mentale veniva considerata appunto uno stigma morale. Per questo ci ha un po’ deluso il ritratto fornito da Roberto Faenza che non è riuscito ad andare al di là della ricostruzione superficiale della storia di Merini. Interpretata da tre bravissime attrici nelle diverse fasi della sua vita, l’Alda Merini di Faenza è una figura femminile maledetta, preda di un’infinita fame di vita, che scava a più non posso nella realtà e affonda il coltello nel suo cuore senza pentimento.
Parla con tutte e tutti, stabilisce legami sul niente. Le basta un incontro per chiamare amica o amico qualcuna o qualcuno. Eppure, fatalmente svanisce in questa trasposizione che non ha sfumature. Peccato, perché non v’è traccia della tempesta che ha scatenato per il solo fatto di esistere. Capiamo perfettamente la difficoltà di condensare in un centinaio di minuti la densissima vita di un personaggio culturale così importante, ma il risultato finale del film è solo la mappa tratteggiata di una vita fuori dall’ordinario.
Madama follia
“Sai perché Dino Campana e Ezra Pound li hanno messi in manicomio? Sentivano cose che gli altri non sentono e non vedono come me, io sento tutto. Persino quando dormo“, dice Alda Merini al suo amico Arnaldo. Scomponendo il titolo di questo film televisivo, la prima parola allude alla malattia di Alda, che ha contraddistinto tutta la sua vita con 12 anni all’interno di un manicomio. Non abbiamo mai amato l’associazione con cui si connette produzione artistica e malattia mentale. Siamo convinte, con David Lynch, che nessun artista possa produrre un’opera vitale se sta male o perda sé stesso.
È vero però che molte delle personalità artistiche più note, potenti, appassionanti, geniali abbiano sofferto di strappi nella mente. Come mai? Cosa succede? Cosa cambia a un certo punto, cosa si rompe, cos’è questo sentire tutto? Sì, l’artista sente tutto perché è profondamente connesso con la sua parte creativa. Ma nel momento in cui affondare le mani in questa capacità di creare fa stare male, l’artista perde tutto. Perde il filo del pensiero, gli affetti.
Ecco, nell’opera di Faenza queste domande, fondamentali per capire e sentire Alda, non compaiono o compaiono solo in maniera superficiale. Quel tanto che basta per evidenziare il dramma di una donna davvero come nessun’altra. L’inizio della psicosi è raccontato molto bene, prima come perdita di contatto con la realtà pratica della vita, poi con le figlie. L’arrivo in manicomio è come una cesoia che taglia tutto, carne e anima. La rappresentazione della vita nell’istituto, però, è molto canonica. Ogni momento è corredato da uno spiegone di raccordo. E allora il racconto procede piano, senza scossoni, vanificando le parti più intense (per esempio la parte in cui si vede l’elettroshock).
Come sempre in un certo racconto televisivo prevale la didascalia rispetto al pathos, all’anima. I dialoghi sono prevedibili, così come le singole sequenze (quella dell’avvicendamento tra i primari, per esempio). Solo le parole di Alda Merini brillano di luce incandescente, nonostante i tentativi di imbrigliarle da parte di uomini senza amore. Alda racconta sé stessa, battendo su una macchina da scrivere su input di un medico “illuminato” (Giorgio Marchesi) che prova a curarla facendola parlare a ruota libera, magari raccontando qualche sogno. Ma la cura non c’è, c’è forse solo quel pizzico di tenerezza che Alda non ha mai conosciuto.
L’amore è un dardo
La seconda parola del titolo è amore ed è stato la ragione di vita principale per Alda Merini. Tutta la sua esistenza è ruotata attorno al sentimento preferito dai poeti, al mistero lacerante di due corpi aggrovigliati, a uomini incapaci di rispondere con la stessa intensità agli scandalosi sussulti di Alda. Forse è qui la radice del suo male, nell’assenza di un rapporto vero, ma da un punto di vista squisitamente artistico ciò viene estromesso dal racconto di Faenza che si accontenta della superficie, senza andare giù, nelle profondità di un animo inquieto. Laura Morante è capace di restituire il caos di una donna naif e accogliente, con una voce dolce e zoppicante, ma a volte sembra distante dal suo personaggio.
E in ogni caso non basta il suo magnetismo naturale a sostenere la struttura della storia. Così come non bastano, a livello narrativo, le chiacchierate con Arnoldo, uno specchio umano che non interagisce con lei, ma ascolta e appunta idealmente ciò che è raccontato dalla protagonista. In conclusione, se pensiamo a un’opera simile, nata come questa per la televisione, come Un angelo alla mia tavola di Jane Campion, dedicato alla poetessa neozelandese Janet Frame, ci rendiamo conto di quello che avrebbe potuto essere Folle d’amore e che non è stato. Entrambe artiste eccezionali, entrambe condannate al manicomio e all’elettroshock, entrambe amanti della vita, Alda e Janet sono però state raccontate con modi diversi. In un caso le immagini si sono fatte poesia, nell’altro no.
La recensione in breve
Roberto Faenza spreca un'occasione per raccontare la forza di una figura come Alda Merini e lo fa con un film che solo a tratti ne restituisce la complessità. Bravissima Rosa Diletta Rossi, interprete della giovane Alda. In parte Laura Morante, che però resta quasi distante dal personaggio.
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