Il film: Godland – Nella terra di Dio, 2022. Regia: Hlynur Pàlmason. Cast: Elliott Crosset Hove, Ingvar Sigurðsson, Hilmar Guðjónsson, Vic Carmen Sonne, Jacob Hauberg Lohmann, Ída Mekkín Hlynsdóttir. Genere: Drammatico. Durata: 142 minuti. Dove l’abbiamo visto: in anteprima stampa.
Trama: Alla fine del XIX secolo, un sacerdote danese si reca in una parte remota dell’Islanda per costruire una chiesa e fotografare la sua gente. Ma più si addentra nel paesaggio, più si allontana dalla sua missione e dalla sua moralità.
La parola e l’immagine, quelle di Dio per gli uomini, quelle degli uomini per il cinema. Tra questi due poli c’è anche il cuore del nuovo film di Hlynur Pálmason, regista islandese di un film acclamato a Cannes come A White, White Day – Segreti nella nebbia (ma vi consigliamo anche l’imperdibile cortometraggio Nest, un’inquadratura fissa che reinventa varie regole di fotografia e montaggio): in questa recensione di Godland – Nella terra di Dio, vi racconteremo del perché questo sia uno dei film imperdibili di inizio 2023.
La trama: alla ricerca dell’immagine di Dio
Alla fine dell’800, un sacerdote danese, interpretato da Elliot Crosset Hove, viene inviato in Islanda per costruire un chiesa e documentare attraverso la fotografia la comunità che risiede in quella landa sperduta dell’Europa. La conoscenza con usi e costumi, soprattutto morali, diversi dai suoi, lo porterà a scoprire lati di sé che non conosceva. Pálmason è anche sceneggiatore di un film curioso e multi-forme, caso non comune di film che parte da un conflitto ma che si evolve senza cercare di risolverlo, anzi fa di quel conflitto il terreno su cui basare una narrazione densa e complessa, la cui profondità deriva proprio dalla messinscena, dal modo in cui il regista e la direttrice della fotografia Maria von Hausswolff scelgono di inquadrare tale conflitto.
La ricerca estetica di un regista da tenere d’occhio
Godland – Nella terra di Dio è in un certo senso un film epico, perché mostra un mito fondativo che è anche una pagina di Storia, partendo dal particolare, ossia il vero tentativo della Danimarca di conquistare e dominare terre e popolazioni islandesi, per arrivare all’universale, cioè la riflessione su quei miti, sul concetto di frontiera e civilizzazione che da Omero e Virgilio sono arrivati fino al western americano. Per attuare in modo così riuscito e affascinante questa riflessione, Pàlmason si confronta direttamente con gli elementi basilari del linguaggio cinematografico, come a voler cercare il mito fondativo del cinema stesso, oltre che delle popolazioni “occidentali”.
E quindi, il film lavora in modo inventivo, maestoso e spesso abbacinante proprio sulla parola – il rapporto cruento ma vitale tra idiomi diversi, che il doppiaggio inevitabilmente smusserà – e sull’immagine – la fotografia di cui il protagonista è un appassionato, l’importanza dell’inquadratura come moto di conoscenza e di scontro -, i prodromi del cinematografo. Il senso visivo del film è prodigioso e non è semplicemente il vezzo di un autore, è un modo per rendere a chi guarda il profondo sentimento degli elementi di cui sono composte le culture che il film racconta, l’essenza profonda, materica, terrena di un popolo, gli odori e gli umori di un popolo, la concretezza radicale dentro una ricerca estetica che sembra anche essere una dichiarazione di stile, ovvero il rapporto tra l’inquadratura fissa e il movimento (le bellissime panoramiche a 360°). Godland è l’opera di un regista tra i più meritevoli di attenzione del panorama emergente, un film che riempie gli occhi e la testa senza dimenticare di scavare dentro.
Godland - Nella terra di Dio è un'opera maestosa e radicale, concreta dietro la grande ricerca estetica
Il nuovo film di Pàlmason è la conferma di un regista complesso e di grande potenza visiva, un'opera ambiziosa ed epica che va alle radici del cinema, passando per la radici della sua terra
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