Il film: Hors du temps, 2024. Regia: Olivier Assayas. Cast: Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Micha Lescot, Nine D’Urso. Genere: commedia. Durata: 105 minuti. Dove l’abbiamo visto: alla Berlinale, in lingua originale.
Trama: Due fratelli e le rispettive compagne vivono insieme la quarantena nella campagna francese, nella primavera del 2020.
Esclusa la miniserie Irma Vep, girata nel 2021 per HBO e presentata in sala al Festival di Cannes nel 2022, era dal 2019 che non si vedeva un’opera di Olivier Assayas sul grande schermo, e il suo nuovo lungometraggio, in concorso all’edizione 2024 della Berlinale, fornisce forse la risposta definitiva in merito, tra paranoie e la necessità della giusta distanza rispetto alla materia raccontata. È infatti un oggetto molto personale quello di cui parliamo nella nostra recensione di Hors du temps, un film dove il reale e la sua rielaborazione romanzata sono costantemente in dialogo, sin dalle prime immagini accompagnate dalla voce dello stesso Assayas, narratore di quello che è effettivamente il resoconto della sua vita nella primavera del 2020, lontano da tutto e tutti per via del Covid.
Quella casa in campagna
Assayas, ci spiega egli stesso, è cresciuto in campagna, in una casa un po’ isolata che lui e il fratello hanno poi ereditato dopo la morte del padre negli anni Settanta. Il luogo ideale dove rifugiarsi quando viene imposto il primo lockdown nel marzo del 2020, per entrambi i fratelli e le rispettive compagne. Il film mostra gli alter ego di finzione dei due fratelli Assayas: Etienne è il cineasta frustrato che legge tutte le direttive su come non farsi contagiare e si ritira nel bosco per la conversazione settimanale con la sua analista; Paul, invece, è il critico musicale che cerca di capire come fare i collegamenti quotidiani con la radio e si innervosisce progressivamente per le nevrosi del fratello. Le loro vicende quotidiane sono intervallate da vere foto d’archivio commentate da Assayas, il quale più volte interrompe il racconto per intervenire in prima persona sulla componente profondamente autobiografica del progetto.
Questioni di (alter) ego
Il gioco autofinzionale si fa ancora più interessante con le scelte di casting, in particolare quella di Vincent Macaigne, emblema dello “sfigato” nel cinema francese contemporaneo, come controparte romanzata di Assayas, al quale non assomiglia per nulla fisicamente (ma se le paranoie esibite sullo schermo sono veritiere, allora il personaggio calza a pennello per il carattere puntiglioso e insicuro associato ai ruoli di Macaigne). Gli si contrappone con molta energia Micha Lescot, apprezzato attore transalpino che non si è mai fatto veramente notare fuori dal paese d’origine (anche se recentemente il pubblico italiano lo ha potuto vedere in Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi), e sono soprattutto le interazioni fra i due a impreziosire l’operazione sul piano recitativo, insieme alla voce narrante del regista.
Bucolico isolamento
Dopo due esercizi di genere consecutivi, uno dei quali la rivisitazione in chiave seriale di uno dei suoi film più noti, Assayas è tornato in territori più piccoli, con un certo bucolismo rohmeriano, perfettamente calibrato nei dialoghi e nel rapporto tra personaggi e location, per raccontare uno dei periodi più bui della Storia recente. Sincero e al contempo bugiardo, con un voluto e costante contrasto fra le affermazioni della voce narrante del vero cineasta e la personalità del suo alter ego, palesemente troppo giovane per avere il curriculum del suo corrispettivo dietro la macchina da presa (Macaigne è nato nel 1978, Assayas nel 1955). Un gioco che va a braccetto con la nozione evocata nel titolo, quella di un luogo fuori dal tempo, dove tutto è relativo e, come nella realtà, tre mesi possono sembrare una sciagura eterna e interminabile. Il film stesso esiste fuori dal tempo, per certi versi è fuori tempo massimo, quasi come se il Covid fosse una scusa per mettere in scena un nuovo “gioco delle coppie” (citando il non felicissimo titolo italiano del suo Doubles vies, uscito 2018) in un contesto che è quasi quello, già menzionato, del cinema di Rohmer, con l’iPad, Amazon e Netflix a fare da simpatici terzi incomodi.
La recensione in breve
Olivier Assayas affronta con la giusta, paradossale leggerezza brillante, il lockdown del 2020, rielaborando le proprie esperienze in merito.
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