Il film: Il mio vicino Adolf. Diretto da: Leon Prudovsky. Cast: David Hayman, Udo Kier, Olivia Silhavy, Kineret Peled, Jaime Correa. Genere: Drammatico/Commedia. Durata: 96 minuti. Dove l’abbiamo visto: In proiezione stampa in lingua originale
Trama: Il signor Polsky è un uomo all’apparenza scontroso che vive in completa solitudine nella sua casa immersa nel nulla della campagna Colombiana. Unica sua compagnia ed impegno giornaliero è un cespuglio di rose nere che annaffia con una tecnica particolare ogni giorno della sua vita. In realtà, però, le giornate e le stanze della casa spoglia in cui abita sono popolate da molte presenze. Si tratta del ricordo doloroso di una famiglia che non c’è più, spazzata via dalla furia nazista. Originario della Polonia, infatti, è l’unico sopravvissuto ai campi di concentramento dove ha perso l’amata moglie, le figlie ed i propri genitori. Nonostante questo, però, non un lamento esce dalla sua bocca.
La solitudine in cui si è calato è l’unica protezione dietro la quale si nasconde per difendersi dal mondo esterno e dalle immagini di un passato che non lo abbandona mai fino in fondo. La sua quotidianità, però, è destinata a essere interrotta dall’arrivo di un misterioso inquilino che ha acquistato in tutta fretta la casa di fianco alla sua. La convivenza non inizia con i migliori presupposti. Quest’uomo e il suo entourage sono chiaramente tedeschi. Tutto in loro, partendo dal suono della lingua fino alla presenza di un cane lupo poco socievole, riflette le immagini del campo di concentramento ed una sorta di terrore incondizionato. Le cose cambiano improvvisamente, però, quando, scorgendo il nuovo vicino, Polsky trova delle somiglianze niente meno che con Adolf Hitler, A quel punto inizia una vera e propria attività di spionaggio per dimostrare l’esistenza del Führer ad un passo da casa sua. Spesso, però, la vita tende a sorprendere e a mischiare le carte quando meno ce lo aspettiamo. Ed è così che questi due uomini iniziano una particolare conoscenza fino a scoprirsi entrambi vittime.
Cosa succede se conosci il tuo peggior nemico e scorgi l’umanità che si cela dietro il tuo odio più puro? E se finite per diventare amici? L’odio è più forte del bisogno di amicizia o lascia spazio alla riconciliazione? Questi sono gli interrogativi da cui il regista Leon Prudovsky è partito per realizzare Il mio vicino Adolf. Un lavoro che può essere definito ben più di un semplice film, quanto un racconto intimo e personale che abbraccia tutte le generazioni di sopravvissuti, di qualsiasi tipo e tempo. Perché, stando a quanto dichiarato da alcuni studi psicologici, la condizione di chi ce l’ha fatta è tutt’altro che portatrice di sollievo. Anzi, per il resto della vita si è destinati a sostenere la responsabilità della propria esistenza e di chi è stato schiacciato dagli avvenimenti. Una condizione, dunque, che coinvolge i sopravvissuti all’Olocausto e, ad esempio, anche quelli dell’attentato alle Torri Gemelle. Nel primo caso, però, l’efferatezza del progetto di eliminazione di massa ha dato vita ad una generazione di persone costantemente in allerta che, nonostante il ritorno a casa, hanno dovuto fare i conti con il ricordo delle esperienze vissute e, soprattutto, con il dolore di famiglie distrutte.
Per questo motivo, dunque, non stupisce che alcuni abbiano sviluppato una sorta di rifiuto nei confronti della lingua tedesca o di alcune attitudini. Odiare, però, richiede un grande dispendio di energie che, probabilmente, nessun sopravvissuto sente di avere dentro di sé o intende impiegare per un’attività così inutile. Per questo motivo, dunque, il film di Prudovsky, pur partendo da una base potenzialmente drammatica, in realtà concentra la sua attenzione sul lato umano all’interno del quale anche due nemici possono costruire un rapporto, scoprendosi meno diversi di quanto possano pensare. E lo fa con una sottile ironia, capace di legare in modo trasversale i toni del dramma a quelli più leggeri della commedia. Perché, spesso, è proprio grazie all’ironia che è possibile toccare e gestire gli argomenti più delicati. Vediamo gli aspetti più interessanti di questo film nella recensione de Il mio vicino Adolf.
Trama: la guerra delle rose nere
Si sa che i rapporti di buon vicinato sono essenziali per mantenere una quotidianità armoniosa. Nonostante questo, però, non sempre è possibile andare d’accordo. Soprattutto quando alla base del contendere c’è un’aiuola di rose nere cui uno dei due tiene più della sua stessa vita perché, nel corso degli eventi, ha assunto un valore speciale. Quei fiori così particolari, infatti, per Polsky rappresentano il ricordo dell’amata moglie scomparsa durante la Seconda Guerra Mondiale in un campo di concentramento. Curarlo con attenzione rappresenta un gesto d’amore profondo verso chi non c’è più, mantenendo ancora vivo il dialogo nonostante l’assenza e il dolore. Per questo motivo, quando il cane lupo del vicino arriva nel suo giardino a “dissacrare” le sue rose, l’uomo non può che iniziare una battaglia personale per proteggere se stesso, la propria solitudine e quel prezioso angolo di ricordi.
Lo scontro, però, assume dei connotati tutti nuovi quando, incontrando faccia a faccia questo misterioso uomo dall’accento tedesco, gli sembra di scorgere dei tratti inconfondibili che generano in lui paura ed una forma di frenesia non provata da molto tempo. Polsky, infatti, è sicuro di aver incrociato lo sguardo niente meno che con quello glaciale del Fuhrer, creduto morto suicida dal mondo intero. Le sue convinzioni, poi, trovano nuove conferme in un’attenta osservazione del soggetto. Movimenti, postura, amore per il suo cane lupo e, soprattutto, lo stile dei quadri dipinti sembrano portare verso un’unica direzione ed una rivelazione incredibile. Ma non sempre le cose sembrano essere come sembrano. Per questo motivo, infatti, Polsky scoprirà di aver ragione e torto al tempo stesso. Il destino, infatti, lo ha portato a confrontarsi con un’altra vittima del sistema nazista. Un uomo che, come lui, è stato spogliato della propria identità ma per motivazioni diverse. Alla fine, dunque, pur avendo vissuto esperienze diverse, entrambi si trovano costantemente in lotta con i ricordi ed in fuga da ciò che rappresentano per il mondo.
Perdonare o conoscere?
Durante una delle numerose lezioni che Primo Levi diede ai ragazzi delle scuole medie e superiori, qualcuno chiese se per lui era stato possibile perdonare chi aveva commesso le atrocità legate all’Olocausto. A questo ragazzo Levi rispose che non era giusto parlare di perdono perché, in quel caso, il male non aveva un volto preciso, con delle connotazioni e un’unica identità. Quanto era successo, infatti, era legato a un’idea o, se volgiamo, a un sentimento ancora più pericoloso di qualsiasi individualità. Questo, infatti, non poteva essere mai sconfitto totalmente ed un suo ritorno doveva essere considerato come un pericolo da tenere sotto controllo. Perché quel tipo d’ideologie possono valicare i tempi e insinuarsi negli uomini in qualsiasi momento. Partendo da questo presupposto, dunque, possiamo guardare al film di Prudovsky con uno sguardo diverso, rispetto a tutte le altre vicende con una tematica richiamante l’Olocausto. E’ chiaro, infatti, che le sue intenzioni sono completamente diverse, cercando di indagare all’interno dell’individuo da entrambe le parti.
Per ottenere questo sguardo d’insieme, dunque, il regista definisce una struttura molto chiara e netta dove, all’apparenza, esiste una vittima ed un nemico. Con lo scorrere della narrazione, però, i confini si fanno sempre meno delineati e la realtà si profila più ambigua. Un’atmosfera che dona particolarmente all’evoluzione degli eventi e al loro significato, conducendo i protagonisti e lo spettatore verso una visione d’insieme inaspettata ma particolarmente umana. In una dimensione del genere, dunque, molti sono i sentimenti tirati in ballo, dalla paura, al dolore fino alla rabbia e alla comprensione che proviene dalla conoscenza. Perché se c’è un elemento che salta immediatamente agli occhi dalla sceneggiatura e dalla messa in scena, è la volontà di utilizzare un tono lieve, a tratti leggero, per andare oltre le generalizzazioni culturali nate da un evento devastante come la Shoa. Parliamo dell’odio per le assonanze di una lingua, il terrore sviluppato nei confronti di un certo tipo di cani e quella smania incontrollata di dare pace ai propri fantasmi smascherando il nemico. Ma cosa accade quando si comprende che chi crediamo essere l’incarnazione del male altri non è che un’altra vittima? Un uomo altrettanto chiuso e condizionato da un passato di dolore suo malgrado. A quel punto decade il concetto stesso di perdono perché si comprende quanto gli individui siano solamente degli strumenti mentre il male è radicato in ben altro e tende ad avere una forma pericolosamente impalpabile, quasi aerea.
Due uomini a confronto con il passato
Il film di Prudovsky si svolge, dunque, in una serrata partita a scacchi in cui due uomini si confrontano celando spesso le loro reali intenzioni pur di fare scacco matto all’altro. Inaspettatamente, però, durante lo svolgimento del gioco, iniziano a vedere nel contendente il riflesso delle proprio paure. Ed è in quel momento che l’avversario smette di essere tale ma si trasforma in un compagno con cui condividere un’esperienza. Un vissuto che, in entrambi i casi, ha la connotazione del dolore e, com’è stato già accennato, della perdita totale delle proprie identità. Polsky porta il segno tangibile del suo percorso di sofferenza sulle cifre tatuate all’interno del campo di concentramento. Herzog, invece, nei connotati modificati e nelle attitudini acquisite per renderlo una perfetta copia del Fuhrer.
La mitologia storica, infatti, ha da sempre riportato la possibilità dell’esistenza di alcuni sosia di Hitler, utilizzati per presenziare a cerimonie pubbliche e per non esporre il leader nazista al pericolo di attentati. Uomini che, tolti dalle loro vite, sono stati sottoposti a una sorta di selezione estetica e ad una costante eliminazione della propria identità. Per i meno perfetti, per chi non riusciva a omologarsi a quel modello il prezzo da pagare era la vita stessa. Ad oggi ancora non abbiamo la certezza storica che questo sia accaduto realmente ma, comunque, rappresenta un appetibile punto di partenza per costruire una narrazione sul concetto stesso di vittima. Un discorso che viene portato avanti con un andamento allegro ma non troppo, all’interno del quale le atmosfere del dramma si sfumano spesso nell’ironia inaspettata delle situazioni. Perché, d’altronde, la vita è un susseguirsi continuo di diversi stati d’animo e di atmosfere agli antipodi che, fondendosi, vanno a definire quello che chiamiamo esistenza.
La recensione in breve
Il film di Leon Prudovsky riesce a costruire uno spacccato umano dilaniato dal dolore e dalla prepotenza altrui attraverso i toni lievi della commedia dove, di tanto in tanto, s'inseriscono anche quelli più gravi del dramma ma senza nessun tipo di autocelebrazione.
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