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Home » Film » Recensioni film » Il patto del silenzio, la recensione del film di Laura Wandel

Il patto del silenzio, la recensione del film di Laura Wandel

La recensione de Il patto del silenzio, il film diretto da Laura Wandel ed interpretato dai giovani Maya Vanderbeque, Günter Duret.
Tiziana MorgantiDi Tiziana Morganti2 Marzo 20237 min lettura
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Il film: Il patto del silenzio – Playground, 2021. Regia: Laura Wandel. Cast: Maya Vanderbeque, Günter Duret, Karim Leklou, Laura Verlinden. Genere: Drammatico. Durata: 72 minuti. Dove l’abbiamo visto: In anteprima stampa.

Trama: La piccola Nora è profondamente legata al fratello Abel. D’altronde la loro famiglia non offre molti altri appigli affettivi. Il padre è disoccupato e tendenzialmente incapace a rappresentare una figura solida. La madre, invece, è una figura vaga e sempre in movimento che, probabilmente per lavoro, si assenta frequentemente. Per questo motivo, dunque, quando arriva il primo giorno di scuola, Nora pensa di non essere da sola, visto che Abel frequenta già lo stesso istituto da qualche anno.

La realtà, però, si dimostra presto molto diversa. Il fratello, infatti, cerca di tenerla il più lontano possibile. Un atteggiamento che la ragazzina non comprende fino a quando non lo vede essere vittima di atti di bullismo da alcuni compagni di scuola. Così, guardandolo da lontano ed impossibilitata ad agire, dentro di se sente cambiare quegli equilibri famigliari ed affettivi che considerava assoluti.


Spesso le sorprese più grandi arrivano proprio da dove meno le aspettiamo. E questo è un principio valido anche e soprattutto per il cinema e l’espressione artistica in genere. Non deve stupire più di tanto, dunque, se, nel programma di Un Certain Regard è stato scovato un piccolo gioiello capace di regalare un racconto di formazione senza per questo cadere negli stereotipi.

Una qualità di cui si sono accorti in molti, visto i consensi che ha ottenuto nell’arco di un anno. Il film diretto da Laura Wandel, infatti, è riuscito ad aggiudicarsi il Premio Fipresci Miglior film a Cannes, il riconoscimento come Migliore opera prima al London Film Festival e l’European Film Award Nomination come Scoperta europea. Considerato tutto ciò, dunque, proviamo a comprendere meglio le caratteristiche di questa inaspettata opera prima attraverso la recensione di Il patto del silenzio.

La trama: Storia di fratelli e di sorelle

Il patto del silenzio è quello che Nora stringe con il fratello Abel durante i suoi primi giorni di scuola. La piccola, infatti, ha iniziato a frequentare la prima elementare nello stesso istituto del fratello pensando di trovare in lui una forma di protezione e sostegno. E, all’inizio, è proprio questo il tipo di rapporto che, socialmente, prova a definire con il ragazzo. D’altronde il mondo fuori di casa la destabilizza e la intimorisce spingendola a trovare una sua collocazione.

Tutto questo, però, cambia nel momento in cui vede Abel diventare vittima di alcuni atti di bullismo. Il suo primo istinto è quello di mettere a conoscenza dei fatti il mondo degli adulti. Per questo motivo, dunque, prova a sensibilizzare il padre e, in modo particolare, gli insegnanti. Nonostante i suoi sforzi, però, tutti sembrano deludere le sue aspettative dimostrandosi inadeguati alla soluzione.

A questo, poi, si aggiunge anche la ferma e ostinata intenzione di Abel a non parlare. Il suo timore, infatti, è inasprire ancora di più le angherie dei ragazzi più grandi. Per questo motivo chiede alla piccola Nora di stringere il patto del silenzio. Una sorta di giuramento tra sorella e fratello in cui lei s’impegna a non far parola di quanto sta accadendo.

Una scelta, però, che posa sulle fragili spalle della bambina una grande responsabilità che, unita alla richiesta del padre di controllare il fratello, non fa che rendere ancora più faticoso il percorso personale. Pressata da tutto questo, dunque, Nora decide di trovare la sua collocazione sociale lontana da Abel. A confermare la sua scelta, poi, anche l’atteggiamento rabbioso del fratello che, per reazione, rischia di trasformarsi da vittima in carnefice. Nonostante tutto, però, il legame tra fratello e sorella può ancora rappresentare un luogo di salvezza, una terra di nessuno cui correre nei momenti di maggior pena? La domanda rimane decisamente aperta.

Il mondo di Nora

Il titolo originale di questo film è Un monde e, a posteriori, si comprende perfettamente come si addica alla perfezione al racconto narrato ma, soprattutto, al tipo di atmosfera scelta. In effetti, quello che la Wandel mostra fin dalle prime immagini è esattamente un mondo, complesso, dinamico, sfaccettato, determinato da regole e strutture sociali. Un universo dove dietro l’innocenza spesso si cela una forma tutta personale di sottile crudeltà. Un posto fisico, psicologico e morale che gli adulti non considerano troppo e non riescono a scorgere esattamente per ciò che è. Una disattenzione che nasce dal non abitarlo e, quindi, non conoscerne i tratti distintivi.

Si tratta dell’universo dei più piccoli in cui l’infanzia non è esattamente un concetto da declinare attraverso atmosfere idilliache, sogni ed una imperante innocenza. Seguendo questa linea narrativa, dunque, la regista utilizza il playground, ossia il cortile, come un luogo dove dover necessariamente trovare la propria collocazione. Una sorta di prima prova sociale che, inevitabilmente, andrà a porre le basi per le convinzioni ed i comportamenti sviluppati in futuro.

La vicenda, dunque, pone un’attenzione veramente particolare e priva di alcun timore culturale nel dare forma ad una struttura societaria dove già sussiste il principio di supremazia, rigetto, accoglienza, o accettazione, a seconda dei parametri rispettati. In questo modo, dunque, il parco giochi diventa il primo luogo effettivamente sociale in cui i più piccoli si misurano con il mondo al di fuori di quello famigliare.

Abituati, nella normalità dei casi, a ricevere protezione e un costante consenso, in questo caso vengono esposti al giudizio ed alla collocazione nella scala gerarchica. Ed in questo mondo a parte di cui è essenziale far parte, anche la struttura famigliare viene messa in discussione. Non è un caso che Abel cerchi di proteggere la sorella tenendola lontana da sé. Mentre Nora si troverà a scoprire particolari non sempre edificanti sul fratello fino a quel momento mai messo in discussione. Ed in questo stravolgimento gli adulti rimangono a guardare, convinti che nel gioco e nel luogo a questo preposto non possa esistere della violenza.

Un racconto a misura di bambino

Quando ci si avvicina ad un film dichiaratamente di formazione spesso si ha l’abitudine di utilizzare l’espressione “regia a misura o a livello di bambino”. Questo dovrebbe rimandare brevemente la scelta stilistica di porsi nei panni di un protagonista insolito e molto giovane, per narrare la storia attraverso la sua voce. Il che non è assolutamente sbagliato, in linea di massima. In questo caso, però, Laura Wandel compie un passo in avanti rispetto alle regole tradizionali del genere. Il suo fine, infatti, non è tanto lasciare che Nora narri gli eventi attraverso la sua esperienza personale. Piuttosto lascia che la ragazzina ci mostri il mondo attraverso il suo sguardo.

In questo caso, dunque, piuttosto che abbassarsi a livello di bambino, la regista cambia proprio angolazione d’osservazione. In modo alternato, infatti, pone la macchina da presa fissa sui volti dei suoi protagonisti o alle loro spalle.  Così facendo riesce a cogliere due diversi piani visivi. Da una parte lo spettatore è proiettato direttamente nello spazio e nelle relazioni seguendo i passi dei giovani protagonisti. Dall’altro, invece, riceve una forte scarica emotiva quando si rende conto di quale effetto abbia la realtà su di loro.

Una narrazione aggiuntiva che si raggiunge proprio grazie a quell’indagine, spesso priva di pudore, sui volti e negli occhi dei ragazzi che diventano amplificazione stessa dell’emozione. In questo caso, infatti, l’assenza di esperienze pregresse garantisce un effetto sempre realistico ed onesto in cui i volti diventano una superfice riflettente attraverso la quale è possibile sentire il vivere e il provare.

La recensione in breve

7.0 Intenso

Chiaramente appartenente al racconto di formazione, il film riesce ad andare oltre i dettami del genere, sfuggendo anche a figure e atmosfere retoriche. In questo senso, dunque, utilizza la telecamera non solo per ottenere un racconto a livello di bambino ma, sopratutto, per catturare il loro punto di vista. Ecco, dunque, che le riprese si concentrano su un una doppia prospettiva: di spalle e fontale. Nel primo caso si entra direttamente nel mondo e nella realtà sociale abitata dai ragazzi. Con il secondo, invece, è possibile vedere l'effetto che alcune esperienze hanno direttamente su di loro. In questo modo, infatti, il volto e gli occhi assumono il ruolo di un mezzo amplificatore dell'emozione.

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