Il film: La cura, 2022. Regia: Francesco Patierno. Cast: Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Francesco Di Leva, Cristina Donadio, Peppe Lanzetta, Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Ernesto Mahieux, Giuseppe D’Ambrosio, Eliana Mglio, Francesco Biscione, Viviana Cangiano, Francesca Romana Bergamo, Giuseppe Cirillo. Genere: Drammatico. Durata: 87 minuti. Dove l’abbiamo visto: alla Festa del Cinema di Roma 2022.
Trama: È la primavera del 2020. Napoli si trova immersa in un’immobilità innaturale. Le sue strade sono vuote e un silenzio assordante risuona libero, conquistando i luoghi dominio assoluto del rumore. La città è nel pieno del lockdown per la pandemia da Covid-19. Nonostante questo, però, un piccolissimo gruppo di artisti prova a non cedere le armi e mantenere viva la creatività. Così, prendendo a prestito le parole di Camus, provano raccontare l’emergenza della quotidianità e la perdita delle certezze. Le parole usate sono quelle de La peste e risuonano con un’attualità incredibile mentre il medico Bernard diventa il protagonista di questa pandemia moderna. Nonostante i luoghi e i tempi siano diversi da quelli descritti dalle pagine del romanzo, però, i sentimenti e lo smarrimento sono gli stessi. I protagonisti, senza alcuna eccezione, provano a ritrovare se stessi in questa nuova condizione di crisi. Ci riusciranno? Ovviamente ma ciò che troveranno sarà diverso da quello che hanno lasciato dietro di loro.
Quando nel 1947 Albert Camus pubblicò La peste, non avrebbe mai creduto che, con uno scarto di oltre settant’anni, l’uomo si sarebbe trovato a confrontarsi con l’avanzata minacciosa e inarrestabile di un’altra epidemia. Un evento che, rispetto a quello descritto dall’autore francese, però, ha avuto un effetto più devastante sulla quotidianità delle persone e, soprattutto, sul controllo con cui ci si è illusi per troppo tempo di poter vivere. Rispetto al passato, infatti, l’uomo ha conquistato, o almeno si è illuso di averlo fatto, una sorta d’immortalità. A illuderlo in questo senso sono state le condizioni di vita migliori, i progressi scientifici e, soprattutto, il controllo di conflitti a livello globale. Considerato tutto questo, dunque, l’imprevisto non è mai stato un’opzione possibile. Almeno non a livello globale.
L’arrivo improvviso del Covid nelle nostre esistenze, dunque, ha rappresentato un vero e proprio sisma che, oltre a mettere in discussione l’organizzazione della quotidianità, ha mutato l’aspetto delle nostre città, le abitudini sociali e, soprattutto, il modo in cui percepiamo e interpretiamo la vita stessa. Costretti a un’immobilità assoluta pur di sopravvivere, siamo rimasti a guardare attraverso il video di un televisore il mondo che rallentava, mutava e con lui anche l’uomo. Nonostante tutta questa immobilità, però, c’è chi ha continuato a pensare e progettare il futuro. Uno di questi è stato il regista Francesco Patierno che, prendendo in prestito il testo di Camus, ha provato ad adattarlo per il film La Cura, per fotografare la città di Napoli, spogliata della sua umanità vociante durante i mesi più duri della pandemia.
Questo vuol dire che, provando a sfidare le difficoltà del momento attraverso la creatività, ha suddiviso le riprese del film in tre momenti diversi. Il primo è sicuramente il più intenso e difficoltoso, visto che è stato portato a termine nella prima settimana di aprile in pieno lockdown. Con una troupe formata da tre persone e il solo protagonista, Francesco Di Leva, sul set, il regista ha portato a termine un film dove è inevitabile ed essenziale far trapelare il senso d’impotenza e la necessità del fare vissuti in quei momenti. Sentimenti che hanno definito quei giorni e che pensavamo potessero migliorare la condizione interire dell’uomo. È stato così? Proviamo a dare una risposta attraverso la recensione de La Cura.
Trama: Cronaca di una pandemia inaspettata
Napoli è una città vitale, rumorosa, dotata di una voce dalle tonalità ben precise che corrispondono a quelle delle persone che la abitano e la animano. Nonostante tutto questo rumore che sa di vita, però, il silenzio e l’immobilità sono destinati a cadere su di lei. Uno strano e misterioso virus si sta diffondendo. Il primo allarme arriva da Bernard, un medico particolarmente scrupoloso che, dopo aver notato i segnali, si batte animatamente con le istituzioni locali che non vogliono sensibilizzare tropo l’opinione pubblica. Le sue paure, però, sono fondate e, in poco tempo la pandemia coinvolge l’intera città contando le prime vittime. In parallelo, però, si assiste anche alle coraggiose riprese di un film che, nonostante i timori per la salute e i divieti imposti del lockdown, prova a tenere in vita uno spirito creativo in attesa che il futuro torni a dare segnali tangibili. Le due narrazioni, dunque, camminano parallele nella fase iniziale fino a quando la prima prende il sopravvento adattando all’attualità la vicenda descritta nel romanzo La peste.
Il medico Bernard, nonostante il pensiero per la moglie lontana e gravemente malata, mette le sue energie a disposizione della comunità. La sua è una battaglia, però, che non conduce da solo. Lo affianca anche Tarrou, che offre i mezzi economici e il suo albergo per organizzare gruppi di volontari. In lui questo fervore umanitario nasce dall’esigenza di mettere a tacere quel naturale egoismo che muove le azioni degli uomini. La stessa condizione che porta a costruire la propria sopravvivenza sulla sconfitta degli altri. Per lui, dunque, anche questa miseria dell’animo rappresenta una sorta di pandemia che deve necessariamente essere fermata. Intorno a loro, poi, si allunga stanca e solitaria la città, a rappresentare quel legame essenziale tra passato e presente, finzione e, purtroppo, realtà.
Il tempo di capire
Quando uno spettatore si siede al buio di una sala cinematografica, lo fa, spesso, con l’esigenza di essere stupito, intrattenuto o, comunque, coinvolto velocemente in un percorso emotivo. Raramente, invece, ci si avvicina a una narrazione per immagini muniti di pazienza e capacità di attesa. Due qualità che, invece, La cura richiede ai propri spettatori per riuscire a dipanarsi attraverso le immagini e il montaggio iniziale apparentemente confusionale. Una sorta di lunga premessa in cui il regista decide di offrire un riflesso del suo lavoro e, soprattutto, della condizione in cui questo è avvenuto nel tempo sospeso e immobile di un lockdown. In questo modo, dunque, lancia una sfida bonaria agli uomini di oggi che, messi in stand by, ora sembrano esigere solo il movimento attraverso un percorso lineare.
Eppure, nonostante lasci perplessi e poco inclini alla comprensione, queste immagini iniziali sono essenziali ai fini stessi della narrazione. In qualche modo il loro ordine scomposto ha lo scopo di creare una connessione tra la finzione letteraria e la realtà storica ma, soprattutto, rimandano forte la sensazione del caos vissuto in quei primi mesi di pandemia. Così, mentre Bernard fa la sua apparizione sullo schermo e la città di Napoli si mostra spogliata dei colori che la caratterizzano, riconosciamo tangibili i segni di una paura che tutti ha coinvolto e mutato. Piccoli gesti fondamentali che, dall’uso della mascherina al lavaggio ossessivo delle mani, arrivano alla necessità di spogliarsi sul pianerottolo di casa pur di schermare dal pericolo la propria famiglia. Nuove abitudini frequentate da tutti nel recente passato e che, in questo montaggio disordinato, raccontano la perdita di sicurezza e orientamento vissuto da un mondo intero.
Credere a tutto o a niente
Dopo questo disordine iniziale, però, la narrazione trova il suo centro e una linearità essenziale per raccontare l’uomo alle prese con se stesso e la propria natura in un periodo di emergenza. In questo senso, dunque, il romanzo di Camus non solo si adatta perfettamente alla realtà vissuta ma mostra un’anima drammaticamente contemporanea. Perché, nonostante il tempo passi e la vita si evolva, l’uomo sembra rimanere sempre uguale a se stesso. Almeno nella profondità della propria coscienza. Non è un caso, dunque, che i turbamenti e le questioni essenziali affrontate ne La peste sono le stesse che La cura mette in evidenza. In una condizione in cui sia la scienza che la religione sembrano fallire miseramente, all’uomo non rimane che fare affidamento su se stesso e la propria capacità di discernimento.
Ed è in questa fase che il film di Francesco Patierno si discosta ideologicamente dall’opera di Camus non rimanendo a guardare ma cercando la soluzione. Una cura, appunto, che può venire solo dai singoli e dalle loro decisioni, dal modo in cui si affronta il dolore e da quanto egoismo si è disposti a mettere a tacere. In questo senso, dunque, il film di Patierno, più che un’esperienza artistica dal punto di vista della scrittura o della regia, rappresenta un percorso emotivo e personale. Le immagini che scorrono sullo schermo, come il carattere dei personaggi, chiamano lo spettatore a mettersi allo scoperto, riflettendo su quale sia stato il suo ruolo. Perché se è vero che l’amore e la compassione sono le cure necessarie per portare l’umanità fuori da tutto questo, è altrettanto certo che non tutti possono essere capaci di tali sentimenti. Perché alla fine è giusto avere la libertà di credere a tutto o a niente.
La recensione in breve
Attraverso il testo de La peste di Albert Camus, Patierno consegna un film non di facile comprensione ma necessario come memoria dell'uomo in un momento di crisi imprevisto e ingestibile. Oltre gli eventi contemporanei, dunque, l'uomo è al centro della narrazione attraverso le paure, gli egoismi e le epifanie che lo contraddistinguono.
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