Il film: L’uomo sulla strada. Regia: Gianluca Mangiasciutti. Cast: Lorenzo Richelmy e Aurora Giovinazzo. Genere: Thriller. Durata: 110’. Dove lo abbiamo visto: in anteprima in proiezione stampa.
Trama: Irene è una ragazza senza troppe certezze. La sua vita non le offre poi molto e non sembra essere nemmeno particolarmente interessata al futuro. Per questo motivo non ha terminato gli studi e si lascia condurre dagli aventi. Ma cosa nutre questo atteggiamento? Per quale motivo sembra essere sempre così risentita con il mondo? Alla base di tutto c’è un dolore forte che, nel corso degli anni, non è andato diminuendo.
Anzi, al contrario, è cresciuto. Una sofferenza che proviene direttamente dal passato quando, a soli otto anni, assiste alla morte del padre a causa di un incidente stradale. A causarlo è un uomo misterioso di cui Irene non ricorda il volto ma la consapevolezza della sua esistenza non l’abbandona mai. Nemmeno quando, entrando a lavorare in fabbrica, incontra Michele, il misterioso proprietario. Tra i due sembra nascere subito qualche cosa, una sorta di legame elettivo. In realtà ad unirli c’è molto di più di quanto Irene possa pensare.
I sentimenti sono aspetti centrali per qualsiasi tipo di narrazione che si estende dai romanzi alle pellicole. Tra tutti, facendo un’eccezione a parte per l’amore, quelli che riescono a muovere maggiormente trame e intrecci sono sicuramente due: il risentimento e il senso di colpa.
In entrambi i casi ci si trova di fronte a due condizioni in grado di attecchire in profondità e durare a lungo. Talmente tanto da convivere per interi decenni andando a definire in modo netto l’evoluzione o l’involuzione di un personaggio. Per quanto riguarda il risentimento, spesso va a determinare le fondamenta stesse dell’agire di una persona. Ogni movimento, ogni scelta fatta, inevitabilmente, subisce l’influenza di un’esigenza di vendetta, una voglia di far pagare il prezzo dovuto a chi si è macchiato di una colpa o di un torto.
In modo del tutto speculativo con questo tipo di sentimento, poi, si evolve il senso di colpa. Si tratta di due aspetti che, il più delle volte agiscono in totale simbiosi e che avrebbero poco senso senza l’altro. Questo vuol dire che, ai fini di una narrazione quanto meno intrigante, ci debba essere un dialogo serrato tra chi si fa carico del risentimento e chi, invece, è corroso dal pentimento e dal senso di colpa. In questo senso è come se ci trovassimo in un rapporto costante tra vittima e carnefice dove i ruoli non sono mai ben definiti e, anzi, tendono ad alternarsi.
Questa situazione è esattamente quella che troviamo ne L’uomo sulla strada, film d’esordio di Gianluca Manguasciutti. Peccato, però, che, dopo aver scelto di utilizzare questi due archetipi comportamentali ed aver costruito un’architettura plausibile all’interno della quale farli muovere ed evolvere, il regista non sia riuscito a raggiungere un risultato emozionante od anche vagamente empatico.
Il film, in effetti, ha le caratteristiche di un compito svolto applicando con attenzione delle regole estrapolate da qualche manuale senza, però, andare ad imprimere un tocco od una visione personale. Come vedremo nella recensione di L’uomo sulla strada, infatti, il problema maggiore di questa vicenda è la sua staticità, che dai personaggi passa a tutta la sfera interiore ed esteriore, senza offrire molti spunti per cambiare la situazione.
La trama: Vivere guardando al passato
La vita di Irene ha subito un trauma dal quale è veramente difficile riprendersi. A soli otto anni, infatti, assiste ad un incidente stradale di cui rimane vittima suo padre. La bambina, però, è l’unica ad aver visto l’uomo che ha causato tutto questo. Vuoi il trauma o i pochi anni, non riesce a ricordare nulla, tanto meno i suoi lineamenti. Nonostante la nebbia che avvolge i particolari di quell’incidente, però, Irene non riesce a liberarsi proprio dalle immagini che non ricorda.
Così, diventata ormai una ragazza, continua a scrutare con ossessionante interesse l’immagine di ogni sconosciuto alla disperata ricerca di un frammento, di un particolare che l’aiuti ad identificare l’assassino di suo padre. Questo eterno risentimento, però, non fa bene alla sua esistenza. Irene, infatti, ha lasciato la scuola prima del tempo e non sembra avere un’idea chiara di come condurre la propria vita. Questo fino a quando non trova lavoro nella fabbrica diretta da un uomo tanto freddo e glaciale quanto affascinante.
Tra i due, nonostante le differenze, inizia a crearsi un rapporto che, da semplice amicizia, sembra trasformarsi in qualche cosa di più. Come sempre, però, non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze. Dietro l’interessamento di Michele si nasconde una verità dolorosa. La stessa che Irene sta cercando ormai da dieci anni. L’uomo, infatti, è il colpevole di cui la ragazza è alla spasmodica ricerca. Il loro incontro, però, non porta a galla nessun tipo di ricordo nella mente della giovane mentre Michele è assolutamente consapevole di chi ha davanti. Una premessa che, sicuramente, non promette un epilogo idilliaco.
Gli archetipi del dolore
Usando le atmosfere e la struttura narrativa di un thriller emotivo e psicologico, questo film avrebbe avuto tutte le carte in regola per consegnare un esordio di buon livello. Peccato che, le intenzioni iniziali e la preparazione attenta della griglia narrativa siano state disattese dalla realizzazione pratica.
Quali sono, però, gli aspetti che hanno portato a questa differenza sostanziale tra gli intenti ed i fatti? Responsabili di questo divario sono sicuramente due elementi: gli archetipi interpretativi utilizzati e il timore di spingere la narrazione in profondità.
Per quanto riguarda le “maschere” usate, il regista compie una scelta ben precisa, utilizzando quella della ragazza ribelle e dell’uomo vinto dal rimorso. Come già specificato, non si tratta certo di un errore. Anzi, tra di loro interagiscono con naturalezza trovando una regione d’essere proprio nel dialogo stretto con l’altro. I problemi sopraggiungono quando, esattamente com’è successo, ci si rifugia nella sicurezza delle loro forme, andando a renderle statiche, quasi fisse.
In senso puramente pratico, dunque, i personaggi di irene e Michele diventano due figure da manuale cui manca, però, qualsiasi tipo di tridimensionalità emotiva. E questo è quanto meno bizzarro, visto che i loro personaggi dovrebbero nutrirsi proprio dei sentimenti provati. Al massimo, però, ci troviamo ad assistere ad una sorta di esasperazione dei tratti tipici degli archetipi rappresentati che, però, non conducono la narrazione in nessun luogo.
E per comprendere le motivazioni alla base di questa sorta d’immobilità, si deve far riferimento al secondo elemento considerato, ossia il timore. Con molta probabilità, infatti, ci si trova di fronte alle insicurezze da esordio che, nel tentativo di rimanere in una comfort zone, spingono a non osare, approfondendo il racconto dal punto di vista intimo. In questo senso, dunque, si è costretti al confronto con una materia solo sfiorata in superficie e mai seriamente intaccata.
Il mondo esterno non esiste
Nella struttura di una narrazione intima, il mondo esterno tende a scomparire o, comunque, ad avere dei contorni piuttosto vaghi. Questo ha senso soprattutto nel momento in cui si vuole costruire un dialogo serrato e fortemente intimo, ponendo i due protagonisti in questione quasi in una sorta di mondo appartato.
Una caratteristica che Gianluca Mangiasciutti decide di applicare anche al suo film ma che, al contrario di quanto sperato, aumenta l’effetto estraniante della narrazione e la mancanza di finalità. I due protagonisti, infatti, sono coinvolti in una ripetizione costante delle loro giornate in attesa che il rapporto creato li conduca al confronto finale. In questa lenta rappresentazione del loro quotidiano, dunque, il mondo esterno non interviene mai a dare sollievo all’atmosfera troppo statica o ad imporre una sorta di movimento all’insieme.
Completamente avulsi da qualsiasi stimolo, vivono l’esistenza di due persone intrappolate nel passato senza avere la piena consapevolezza di condividerlo. Una situazione che, di per sé, potrebbe essere anche interessante se lo fossero i due protagonisti coinvolti. Ma non sembra essere così.
La recensione in breve
Partendo da una giusta interpretazione del genere e costruendo un impianto narrativo potenzialmente interessante, il regista non riesce comunque a consegnare un thriller psicologico efficace. A mancare, infatti, è proprio il lato emotivo dei due personaggi che non evolve mai e non viene approfondito. In questo senso, dunque, ci troviamo di fronte a due archetipi della narrativa del dolore che, però, non assumono una tridimensionalità psicologica.
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Voto CinemaSerieTV