Il film: Memory, 2023. Regia: Michel Franco. Cast: Jessica Chastain, Peter Sarsgaard, Elsie Fisher. Genere: Drammatico. Durata: 100 minuti. Dove l’abbiamo visto: Al Festival di Venezia 2023.
Trama: Sylvia è un’assistente sociale che vive con la figlia. Un giorno incontra Saul.
Michel Franco è uno dei registi cinematografici più controversi tra quelli che girano nei circuiti festivalieri. Ha vinto premi sia al Festival di Cannes (con After Lucia nel 2012, Chronic nel 2015 e Las hijas de Abril nel 2017) che a quello di Venezia (con New Order nel 2020), creando sempre dibattito tra estimatori e detrattori.
C’è chi lo giudica un cialtrone morboso, chi invece nella morbosità del suo cinema rintraccia un’irrequietezza da discutere. Si presenta di nuovo in Concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica in occasione della sua 80esima edizione con Memory, ritorno in terra statunitense con protagonista Jessica Chastain nei panni di una protagonista problematica e dal passato enigmatico. Ne parliamo nella nostra recensione di Memory.
La trama di Memory
Sylvia (Chastain) è un’assistente sociale, con una vita in apparenza semplice e scandita con regolarità tra la figlia Ashley (Blake Baumgartner), il lavoro e le riunioni degli Alcolisti Anonimi. Tutto è meticolosamente ordinato, nonostante un rapporto conflittuale con la madre e la sorella e una condizione economica sempre in bilico.
Ogni cosa sembra andare in pezzi quando una sera, dopo una rimpatriata tra ex compagni di scuola, Saul (Peter Sarsgaard) la segue a distanza fino a casa. Un incontro inaspettato che in Sylvia pare risvegliare ricordi di un passato mai sopito e che arriverà a sconvolgere entrambi e le loro consolidate certezze.
Segni di irrequietezza
Il cinema di Michel Franco è un cinema fatto di irrequietezze. C’è sempre qualcosa, se la si cerca bene, che nelle immagini che il regista messicano sceglie di comporre destabilizza tutto quello che gli sta attorno. Di solito è un dettaglio, un piccolo elemento la cui presenza minima o inaspettata altera il senso di tutto il resto.
Ce n’era uno piccolo, in apparenza insignificante eppure sconvolgente in Sundown, film precedente di Franco presentato sempre in Concorso a Venezia. Il protagonista di Tim Roth prende il sole su un’affollata spiaggia, tra bagnanti in costume e ombrelloni aperti, quando nel mezzo di questa umanità colorata si fanno largo due poliziotti di pattuglia bardati di nero dalla testa ai piedi e con enormi mitra in pugno. Passano e vanno via, non accade nulla, ma questa è un’immagine destabilizzata e destabilizzante, dove traiettorie opposte collidono.
Ce ne sono diverse anche in Memory, come ad esempio una macchina della polizia che passa per una frazione di secondo in primo piano quando tutto è tranquillo e non ha senso che quell’auto sia lì, oppure quando in uno scambio di sguardi tra madre e figlia si inserisce all’ultimo un ragazzino, un opposto che irrompe in scena. È più o meno tutto così il cinema di questo regista, fatto di continui presagi, di moniti annidati nella fissità delle sue inquadrature pronti a capovolgere da un momento all’altro l’esito dell’inquadratura successiva.
Una nuova finestra da cui guardare il cinema del regista messicano
Talvolta le cose gli riescono e talvolta non così tanto (complice anche una certa distanza che l’autore spesso prende nei confronti dei suoi personaggi), ma la maniera in cui il regista riesce a evocare l’ambiguità, l’incertezza e a far sudare freddo è davvero un’abilità che in pochi possiedono. Basti pensare a due momenti topici di questo Memory: il pedinamento iniziale di Saul (un Sarsgaard davvero ottimo) alla protagonista, con l’uomo che esce a ogni stacco letteralmente dall’ombra e dalle spalle di Sylvia, oppure un frame di pochi istanti in cui Saul si trova esitante davanti a due porte.
Poi, a dire il vero, per una volta l’opera di Franco si sviluppa secondo traiettorie inedite, più calde e affettive (che chiaramente non sveliamo), dove a fare il film è comunque il coesistere in ogni frangente della calma e della sua possibile rottura. Memory inquadra poi l’ipocrisia della famiglia borghese e di sangue, sfruttandone la sordità e l’odioso rigetto dell’evidenza come il motore dal quale partire per generare una nuova possibilità di rapporto, una nuova formula familiare tanto sbilenca da riconoscersi perfettamente in linea con lo sguardo e le intenzioni di Franco.
Da quest’opera ne esce insomma fuori una forza costruttiva e non distruttiva, che nonostante sia sempre adiacente al baratro – ma sta tutto lì, appunto, il traino attraverso cui il regista ragiona sopra le storie – guarda a una fiducia che apre tutta una nuova finestra da cui scrutare il lavoro di un cineasta ogni volta affascinante.
La recensione in breve
Quello di Michel Franco è un cinema fatto di ambiguità e incertezze. Memory risponde ancora una volta alla cifra stilistica del regista, percorrendo però traiettorie inedite di vicinanza ai propri personaggi.
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