Il film: Mur. Regia: Kasia Smutniak. Cast: Kasia Smutniak. Genere: Drammatico, Documentario. Durata: 107 minuti. Dove l’abbiamo visto: Alla 18^ Festa del Cinema di Roma.
Trama: Diario di viaggio che attraversa vari muri: da quello del ghetto ebraico, di fronte al quale la Smutniak è cresciuta, a quello costruito dal governo polacco sul confine con la Bielorussia per non permettere ai migranti provenienti dalla Siria di raggiungere il Paese.
C’è una scena chiave per capire i limiti di Mur, il documentario di Kasia Smutniak che, dopo il festival di Toronto e la Festa del cinema di Roma, arriva anche nelle sale italiane: lei e la sua operatrice stanno volando su un piccolo aereo privato, l’unico modo per poter riprendere il confine tra Polonia e Bielorussia che è al centro del film intero senza che la polizia intervenga. Nel momento in cui il confine è visibile, dall’alto, la regista anziché riprenderlo gira la telecamera su di lei e la sua collaboratrice.
In questa recensione del primo film come regista dell’attrice polacca, divenuta italiana, parleremo di come Mur si muova tra buone intenzioni e inesperienza non riuscendo a cogliere il senso finale dell’operazione e rischiando di divenire qualcosa di sgradevole.
La trama: il confine della vergogna
Il film racconta in prima persona l’esperienza dell’attrice che, scossa dal modo in cui le forze dell’ordine polacche respingono e trattano i profughi che cercano di entrare in Polonia, decide di andare in quei luoghi e raccontare cosa accade, cosa vivono i migranti e come gli abitanti della zona reagiscono agli eventi, sfruttando la propria famiglia e i propri amici che vivono nei dintorni.
È in sostanza la stessa storia raccontata da Agnieszka Holland nel recente The Green Border visto a Venezia, ma vista da un punto di vista documentario e cronachistico, che Smutniak ha mutuato dal “giornalismo diretto” di Diego Bianchi, in arte Zoro, il conduttore di Propaganda Live, in cui i filmati erano apparsi per la prima volta, nel 2021, e di cui Mur è un’evoluzione in tempo reale.
Il documentario è una finestra o uno specchio?
Smutniak si mette in gioco in prima persona, con indubbio coraggio, ottima volontà e un desiderio sincero di raccontare una realtà scomoda, specie per un paese che su quel modo reazionario di intendere l’argomento ha fondato il suo successo elettorale (almeno fino alle recenti consultazioni politiche). Il metodo è indubbiamente quello di Zoro, ovvero fare in modo che la soggettiva e il proprio personale punto di vista, sia in senso filmico che politico, diventi passe-partout per un pubblico più ampio, un modo per interessare anche un pubblico non necessariamente avvertito.
Quel metodo però è molto delicato, richiede un’esperienza nell’uso delle immagini, un’accortezza che Smutniak ancora non ha e così la finestra in tempo reale su una realtà sconvolgente rischia di tramutarsi in uno specchio, un vetro che riflette la propria esperienza lasciando a tratti sullo sfondo il cuore stesso dell’operazione, il dovere civile che ne era alla base. Come quando, appunto, anziché mostrare la pietra dello scandalo, quel muro naturale, quel confine verde, si limita a mostrare se stessa mentre vede quel muro. Sarebbe un’interessante operazione teorica, e non credo sia questo il caso, specie se non si facesse della teoria sulla pelle degli esseri umani; in ogni caso, non è la buona fede di Mur a essere in dubbio, quanto la sua tenuta formale e umana.
La recensione in breve
Smutniak mostra coraggio e sincerità, ma le immagini le sfuggono di mano e si ha l'impressione che voglia raccontare se stessa più dei migranti
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Voto CinemaSerieTV