Il film: Non sei sola: La battaglia contro il branco, 2024. Regia: Robert Bahar e Almudena Carracedo. Cast: Natalia de Molina e Carolina Yuste. Genere: Documentario, true crime. Durata: 102 minuti. Dove l’abbiamo visto: Su Netflix in anteprima stampa, in lingua originale.
Trama: Il resoconto del terribile caso del “Branco di Pamplona”, uno stupro di gruppo avvenuto nel 2006. Un caso che ha cambiato la legislazione spagnola in materia di violenza sessuale.
Non può che colpirci particolarmente da vicino il documentario diretto da Robert Bahar e Almudena Carracedo (gli stessi del pluripremiato The Silence of Others), raccontando la storia di un caso così tanto simile a quelli che accadono così tanto spesso anche qui da noi. Il primo a venire alla mente, non tanto per i dettagli di quello che è accaduto ma per l’impatto che ha avuto a livello sociale, è quello dell’omicidio di Giulia Cecchettin, nome che è stato eletto a vero e proprio simbolo per le vittime di fenomeni che è imperativo cambiare. Il caso del “Branco”, “la Manada”, di Pamplona ha avuto un impatto simile sulla coscienza collettiva spagnola, portando – dopo anni di lotte, di proteste, di processi – ad un cambiamento radicale dal punto di vista legislativo nella concezione di violenza sessuale, e sopratutto sull’entità delle punizioni date ai colpevoli.
Come vedremo in questa recensione di Non sei sola: La battaglia contro il branco, il film appena arrivato su Netflix è uno splendido ed emozionante documento di un cambiamento storico, un cambiamento che ha però richiesto tante sofferenze da parte della vittima, che è diventata simbolo si di un lotta necessaria ma al contempo è stata presa di mira da tutti coloro che avrebbero voluto mantenere le cose così come stanno. Non sei sola racconta di uno stupro di gruppo avvenuto a Pamplona, nel 2016, ma non si sofferma a lungo sulla dinamica del fatto in sé per dare più spazio a tutto ciò che è accaduto dopo, dai processi ai colpevoli alla gogna mediatica a cui la vittima è stata sottoposta per non aver detto “più chiaramente di no.” Il docufilm diretto da Bahar e Carracedo è ben realizzato, ricchissimo di testimonianze, profondamente toccante in certi momenti. Ne consigliamo la visione a tutti, perché di queste storie bisogna parlare il più possibile, perché come afferma la stessa “Lucìa”, la vittima, in una lettera: “Non si deve restare in silenzio, raccontatolo ad un amico, ad un parente, alla polizia… Fatelo come meglio credete… Ma raccontatelo.”
Il “Branco” e la colpevolizzazione della vittima
Ciò che ne è seguito, è stato peggiore della situazione vissuta.
Il caso de “La Manada”, del “Branco” come è conosciuto qui da noi, ha rivoluzionato in Spagna la percezione di violenza sessuale, come dicevamo, dal punto di vista legislativo. Nel 2016, durante le festività a Pamplona di San Fermin, un gruppo di cinque amici ha aggredito e violentato una diciottenne, lasciandola poi in mezzo alla strada dopo averle rubato il telefono cellulare. La ragazza, a cui nel film viene dato il nome fittizio di Lucìa per proteggere la sua privacy, è stata soccorsa da una coppia di passanti e ha poi chiamato la polizia per denunciare i suoi aggressori, che sono stati velocemente arrestati.
Come potrete dedurre dalla citazione con cui abbiamo aperto il paragrafo, però, le cose da questo momento in poi non sono state affatto semplici e lineari come si potrebbe immaginare: Lucìa viene prima accusata di essere stata consenziente, di averli stuzzicati, di non avergli fatto capire abbastanza chiaramente che non voleva. La sua colpa più grave? Essere caduta in uno stato di shock tale da non riuscire a reagire con violenza alla violenza che stava subendo. Per parte dell’opinione pubblica, di conseguenza, significa che ha istigato i cinque uomini (tutti molto più grandi di lei, di età compresa tra i 27 e i 29 anni) a farle quello che le hanno fatto. Non basta che i membri del “branco” abbiano documentato la violenza in un video, non basta che avessero già fatto qualcosa di molto simile ad un’altra donna (che avevano precedentemente drogato), non basta che dai messaggi nel loro gruppo Whatsapp fosse chiaro che lo stupro fosse premeditato. Per molti erano innocenti, vittime delle menzogne di una donna desiderosa di attenzione.
Le falle nel sistema giudiziario spagnolo si fanno ancora più evidenti quando tanto nel primo processo come nel successivo appello i cinque vengono condannati (e poi velocemente rilasciati) per abuso e non per vera e propria violenza sessuale; una pena minore, che implica il fatto che la vittima non abbia “fatto capire di non essere consenziente” ad i suoi aggressori. Anche se loro l’avessero drogata, come fecero con l’altra giovane donna, sarebbe stato un “semplice” abuso, perché lei non avrebbe potuto esprimere in maniera chiara che non voleva partecipare all’atto.
L’indignazione in Spagna per queste due sentenze è stata enorme, riverberando nel resto d’Europa e del mondo, portando nelle strade centinaia di migliaia di persone arrabbiate, decise a farsi sentire per un sistema che va cambiato, per una cultura patriarcale che deve necessariamente essere messa in discussione. Ed è grazie a Lucìa, che pur sotto costante scrutinio da parte dei media e dei social, ha deciso di continuare a lottare, e a tutti coloro che l’hanno aiutata, dai suoi genitori al suo avvocato, dai poliziotti alle rappresentanti delle associazioni femministe che sono scese in strada movimentando così tante persone, che le cose sono cambiate. Nel secondo appello, quello alla Corte Suprema, la sentenza è infatti diversa: non più abuso, ma violenza sessuale vera e propria. Una sentenza storica, che cambierà per sempre le leggi spagnole sulla violenza alle donne.
Un documentario ben strutturato e coinvolgente
Non sei sola: La battaglia contro il branco racconta il caso del “Branco” e di Lucìa in grande dettaglio, soffermandosi su tutto quello che accadde dal 2016, quando avvenne lo stupro, fino all’ultimo appello. La storia è sviluppata con chiarezza, rendendoci estremamente partecipi di quando accaduto, mostrandoci la reazione di tutte le parti in causa, l’influenza dei media, il ruolo dei social, dipingendo i fatti nel modo più completo possibile. A rendere il tutto così coinvolgente le numerosissime voci a cui è stato chiesto di partecipare, dai poliziotti che per primi soccorsero Lucìa fino ai suoi avvocati e al sindaco di Pamplona, che ha lottato per anni perché la ragazza ottenesse giustizia.
Nel racconto vengono poi inseriti altri due casi, quello della seconda vittima del “Branco”, e quello di Nagore Laffage, una giovane infermiera brutalmente uccisa nel 2008, sempre durante la festa di San Fermin a Pamplona, da José Yllanes, uno studente di medicina che lei aveva rifiutato. La madre di Nagore partecipa attivamente al documentario, evidenziando i punti in comune tra i due casi, soprattutto per come la legge sia stata incapace di fare veramente giustizia (a Yllages venne data una pena estremamente leggera). Il quadro della situazione si fa così ancora più ampio e dettagliato e lo ripetiamo, ci colpisce ancor più da vicino visti i casi simili accaduti anche qui da noi.
Le attrici Natalia de Molina e Carolina Yuste, nella versione in originale del documentario, danno voce alle due vittime del “Branco”, utilizzando esclusivamente le parole che le due donne hanno effettivamente pronunciato, e sono capaci di trasmettere le emozioni da loro vissute e il peso di quanto sta man mano accadendo. Come dicevamo inizialmente, parlare, denunciare, gridare la propria indignazione, sono tutte azioni fondamentali, necessarie, e il documentario di Bahar e Carracedo è capace di restituire la voce a molte vittime di violenza, non solo quelle del “Branco”, ma anche a tantissime altre donne che hanno subito gli stessi terribili abusi.
La recensione in breve
Un documentario veramente toccante che riesce a raccontare con incredibile chiarezza un fenomeno socioculturale che ci tocca da vicino. Da vedere assolutamente!
- Voto CinemaSerieTV