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Home » Film » Recensioni film » Prey, la recensione: dagli occhi della preda

Prey, la recensione: dagli occhi della preda

La recensione di Prey, il film su Disney+, di Dan Trachtenberg e con Amber Midthunder, in cui il franchise di Predator ritorna rinnovato.
Giacomo LenziDi Giacomo Lenzi5 Agosto 20226 min lettura
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Naru osserva con una torcia in Prey
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Il film: Prey (Prey) del 2022. Regia di Dan Trachtenberg, Cast: Amber Midthunder, Dakota Beavers, Stormee Kipp.
Genere: azione / fantascienza, durata 99 minuti. Dove lo abbiamo visto: su Disney+, in lingua originale.

Trama: Nel Nord America della prima metà del 1700 Naru, una giovane nativa americana, segue il suo percorso di crescita in preparazione della sua prima battuta di caccia. Ben presto lei e i suoi compagni passeranno da essere cacciatori a diventare prede.


Predator è uno dei grandi franchise a cui Hollywood ama tornare. Una proprietà intellettuale che la Fox negli anni ha proposto e riproposto a prescindere dai vari risultati. Basti pensare che Predator 2 incassò esattamente la metà del primo capitolo. Un risultato simile avrebbe affossato qualsiasi saga e, per un po’ almeno, così è stato. Ad oggi però si contano cinque film del franchise a cui aggiungere: due crossover con Alien, un numero indefinito di romanzi, fumetti (tra cui una fantastica mini insieme a Batman), videogiochi e apparizioni varie.

I motivi di questa prolificità, più che nel tornaconto economico (sicuramente immancabile), risiedono a nostro avviso da un’altra parte. Nell’icona stessa dello Yautja, la razza aliena protagonista, entrata ormai nell’immaginario collettivo. Tutti hanno piacere a vedere un qualcosa legato a Predator e tutti sono interessati a lavorarci. Peccato che questo amore collettivo non abbia portato spesso a buoni risultati, anzi. Ma, come vedremo nella nostra recensione di Prey, questa volta qualcosa sembra essere andato diversamente.

La trama: guardare al passato

Naru mira con l'arco

Siamo nella prima metà del 1700 in una zona che parrebbe essere tra Stati Uniti e Canada. Naru è una giovane nativa americana che si sta preparando alla sua prima caccia, un rito di passaggio fondamentale all’interno del suo popolo. La questione non è delle più semplici: i suoi compagni maschi la sottovalutano e non la vedono di buon occhio e il territorio è ricco di minacce come orsi e puma. A quelli terrestri si aggiungerà presto anche un predatore di un altro pianeta, pronto a svolgere la sua battuta di caccia, in cerca di nemici (animali e umani) in grado di garantirgli una buona sfida.

Prey da questo punto di vista guarda al passato non solo narrativamente, ambientando la storia secoli prima del capitolo originale, ma anche a livello di struttura filmica. Fin dal principio, con l’arrivo della navicella dello Yautia, Dan Trachtenberg (già regista dell’ottimo 10 Cloverfield Lane) ripercorre il sentiero tracciato da McTiernan con Predator nel 1987. Anche in questo caso quindi vedremo il cacciatore alieno affrontare un gruppo, decimandolo nel tempo fino ad arrivare allo scontro finale.
La differenza principale sta altrove.

La differenza principale: la preda

Naru si nasconde dal Predator
Fin dal titolo Prey (ovvero Preda) decide di cambiare un tassello, singolo ma fondamentale, della formula dell’originale. In Predator il concept era semplice quanto accattivante: prendere un gruppo di (ex) berretti verdi, ovvero gli uomini più pericolosi del mondo nell’ottica di un prodotto nato negli Stati Uniti reaganiani, e piazzargli davanti un avversario di un altro pianeta in grado di annichilirli. In pratica una lotta tra i campioni della terra e quello di un altro pianeta, due categorie di predatori portati allo scontro, un topos storico e narrativo piuttosto classico ma sempre attraente e molto funzionale qua declinato non senza ironia.

La scelta del cast era poi semplicemente perfetta da questo punto di vista, con Schwarzenegger come perfetta rappresentazione del superuomo anni ’80 alla guida di un gruppo di corpi scolpiti e pronti per il macello. Tutti i sequel diretti, con parziale eccezione del sottovalutato Predator 2, nel riproporre una formula apparentemente consolidata mancavano proprio nei personaggi da contrapporre al cacciatore alieno, oltre che nella mano magistrale di McTiernan. Nessuno era infatti una minaccia credibile quanto il Dutch di Schwarzenegger. Prey da questo punto di vista azzecca la mossa e capovolge in parte il concept. Non più una guerra tra predatori ma una caccia a una preda e la Naru di Amber Midthunder, in quanto donna e in quanto nativa americana, ne diventa una personificazione efficace e funzionale.

Una metafora fin troppo esplicita

Naru attacca il Predator

Trachtenberg, fin dai primi minuti, concentra e porta la macchina da presa sugli occhi delle prede durante le battute di caccia di Naru e del suo gruppo, così come su quelle dei bersagli dello Yautia. Un modo abbastanza elegante e molto filmico per portare lo spettatore nella direzione voluta, farlo entrare nell’ottica di un cambio di paradigma. È un peccato quindi che col procedere del lungometraggio si sia andati in una direzione più verbosa e didascalica. Naru diventa ben presto un personaggio simbolo a cui legare una metafora sul ruolo della donna-preda, sottovalutata e non ritenuta una minaccia o degna di attenzione dai suoi compagni, dai coloni francesi o dallo stesso alieno. Un percorso in grado di trovare una sua perfetta coerenza nel racconto filmico.

Peccato però che si sia scelto di esplicitare la metafora in un paio di dialoghi. Una scelta fuori contesto, per nulla necessaria, in grado di sgretolare la sospensione dell’incredulità e che rischia di far uscire lo spettatore dal film. L’impressione, da prendere con le pinze visto l’assenza di fonti in merito, è quella di una decisione legata a richieste della produzione, non sarebbe certo la prima volta in questo progetto. Lo stesso fatto che Prey facesse parte dell’universo di Predator doveva rimanere un segreto fino alla sua distribuzione, salvo poi scegliere una via più sicura durante la campagna marketing.

Il migliore dei sequel?

Il predator in Prey

Come abbiamo visto non tutto funziona alla perfezione in Prey, come la stessa gestione dello Yautja, opportunamente adattato per ragioni narrative a nuovi standard di potenza (o “nerfato” come si direbbe nel mondo del gaming). Ci si potrebbe chiedere perché il nostro cacciatore giri con un elmo d’osso quando possiede una navicella in grado di viaggiare tra sistemi solari diversi o delle frecce in lega metallica comandate attraverso un laser. Oppure ancora potremmo concentrarci su quel dettaglio di quella pistola nel finale che aprirebbe a varie domande. O ancora perché dei nativi americani a contatto con coloni francesi parlino tra di loro un inglese (così pulito tra l’altro).

La risposta a ogni domanda in questi casi è molto semplice: la rule of cool. Il design dell’alieno giova e trova una nuova freschezza con quel copricapo, la scelta di quella pistola garantisce un effetto wow ai veri appassionati della saga, questa gestione linguistica facilita la vita dello spettatore. I problemi di Prey emergono proprio quando la rule of cool non viene seguita alla lettera, ovvero quando si cerca di rallentare il ritmo, quando la caccia si interrompe, lo spazio filmico lascia il passo alla didascalia e il film smette di divertirsi.

Detto questo il film di Trachtenberg è ampiamente promosso. È in grado di regalare una buona esperienza a tutti i tipi di spettatori grazie a una regia piuttosto salda, con tanto di qualche buon guizzo sul finale, e a una protagonista molto in parte.
È il miglior sequel? Per noi se la combatte con il secondo film della saga, ambientato in una giungla urbana, ricco di una follia e una visione che lo avvicinava più a Robocop che al film di McTiernan.
Sicuramente Prey, cambiando la formula, è il miglior tentativo di dare un futuro migliore al franchise.

La recensione in breve

7.0 Buono

Prey ripercorre la struttura del Predator del 1987, lo ambienta nel 1700 e ne cambia un fondamentale elemento. Il risultato è un film riuscito, in grado di portare nuova freschezza a un franchise in difficoltà ma che a tratti si ferma per parlare in modo didascalico allo spettatore, perdendo la voglia di divertirsi

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