Il film: Rheingold, 2022. Regia: Fatik Akin. Cast: Emilio Sakraya, Mona Pirzad, Hüseyin Top. Genere: Gangster, crime. Durata: 138 minuti. Dove l’abbiamo visto: Al cinema, in anteprima stampa.
Trama: Dall’inferno di una prigione irachena, a metà degli anni Ottanta Giwar Hajabi arriva in Germania con la sua famiglia e approda in fondo al mondo. In poco tempo, passa da piccolo criminale a grande spacciatore, guadagnandosi il soprannome Xatar (“pericoloso”). Fino a quando non perde un prezioso carico di droga. Per saldare i suoi debiti con il cartello, Giwar progetta così un leggendario furto d’oro.
È chiaro fin dai primi momenti di Rheingold cosa Fatih Akin abbia visto nella figura di Giwar Hajabi, meglio noto col nome d’arte Xatar. È una storia a dir poco pazzesca quella della vita del rapper, imprenditore ed ex criminale tedesco di origini curde. Una storia ricca di colpi di scena e svolte improvvise che fa il giro di mezzo mondo, che parte dall’Iran, passa per Francia, Germania, Olanda e arriva persino in Siria. Come vedremo in questa recensione di Rheingold Una storia che Akin scrive e dirige com’è solito fare, mescolando la fascinazione per il gangster movie con pennellate di contesto sociale, lasciando però che ad emergere sia anche una dubbia caratura morale.
La trama di Rheingold
Rheingold parte praticamente dalla fine. Siamo nella Siria del 2010 e Giwar Hajabi (Emilio Sakraya) è trascinato in un carcere siriano. I suoi aguzzini lo tormentano: vogliono sapere dove ha nascosto l’oro. Ma quale oro? Da qui il film si riavvolge. Conosciamo Giwar ancora prima che nasca. Lo partorisce Rasal (Mona Pirzad) in una grotta. È una combattente curda scappata sulle montagne dalla capitale iraniana Teheran nei primi anni Ottanta, quelli della rivoluzione islamica di Khomeini. Chiama suo figlio Giwar perché significa “nato dalla sofferenza”.
Quello di Rasal è un viaggio che condivide assieme al marito Eghbal (Kardo Razzazi), stimato compositore, che vede poi spostare la famiglia in giro per l’Europa fino a raggiungere Bonn, ai tempi capitale della Repubblica Federale di Germania. A un certo punto Eghbal esce di scena e da qui Rheingold pianta in qualche modo i semi di quella che è l’ascesa criminale di Giwar, ragazzino brillante ma impulsivo. Prima piccolo spacciatore, poi figura sempre più torbida immischiata nei giri della malavita che fa la spola dentro e fuori la Germania fino ad arrivare proprio lì, a quell’oro, a quella Siria che apre il film e che demarca il prima e dopo del cantico di Xatar.
Il racconto di una violenta ascesa alla criminalità e oltre
Akin trae ispirazione dalla biografia ufficiale di Hajabi (in originale: Alles oder Nix: Bei uns sagt man, die Welt gehört dir) e adotta un punto di vista sempre sospeso a metà tra lo stupore nei confronti di questo uomo dalle vicissitudini incredibili – fosse solo quello legato al fatto di vederlo ancora vivo e vegeto – e la ricerca, a dire il vero un po’ blanda, dei perché che lo muovono. La cornice e l’estetica che scandiscono il violento coming of age di Hajabi non possono quindi essere che quelle proprie del gangster movie che si rifà a Scorsese, in particolare ai ragazzacci di Mean Streets che già infestavano l’opera prima di Akin, Short Sharp Shock.
Dopotutto Akin, originario dell’Amburgo multiculturale, in questo contesto c’è nato e cresciuto. Egli stesso ha fatto parte in gioventù di circoli poco raccomandabili, di quadri di quartiere tesi nella difficile convivenza tra culture diverse e prive di adeguati modelli di riferimento. Una questione, questa di un orizzonte da seguire, che in Rheingold emerge in più occasioni lungo le due ore e un quarto di film. All’improvviso ed egoistico allontamento di Eghbal, Akin assegna infatti il peccato originario. Il padre viene a mancare e qui sopra l’autore ricama lo spaesamento valoriale di Giwar, che prima si lega a un pugile che gli dona la conoscenza della rissa da strada, poi a un anziano gangster che gli offre un’opportunità, e così via.
Nel segno di una profonda ambiguità
Ma in quella che è una sceneggiatura ben curata nello scandire i rintocchi e nella gestione dei numerosi colpi di scena, il senso del valore e della morale – che a dirla tutta sembrava preannunciato anche dal preambolo storico sulla resilienza curda e sul ruolo del femminile, invece sempre periferico – è ogni volta un passetto indietro rispetto al fascino che Akin prova e che non fa nulla per nascondere. Coccola sempre e comunque il suo protagonista (quello di Sakraya da questo punto di vista è un volto azzeccato), anche con una certa dose di ironia nel terzo atto del film, pure quando scade ripetutamente nello sgradevole o quando dovrebbe ritrovarsi una punizione perlomeno equiparata alla sua ambiguità.
Persino nel momento in cui arrivano gli inevitabili conti da saldare con la legge, quelle della cattività e del carcere sono solo l’ennesimo trampolino utile a slanciare la mitologia del nuovo capitolo di vita di Xatar. È un po’ come se Rheingold fosse una macchina lanciata ad altissima velocità che falcia ogni cosa sopra il suo tragitto. Ti aspetti che prima o poi si schianti contro un muro e finisca la corsa, ma il muro invece lo sfonda e continua a tirare dritto con tanto di sorriso del pilota.
Non ci sono insomma dubbi sulla capacità di Akin di giostrare alla grande il nero del proprio racconto, di farne storia avvincente e ritmata. In questa occasione rimane però il fatto di vedere le crepe e le riflessioni cedere il posto a quella che sembra a tutti gli effetti l’agiografia di un uomo a cui le cose sono andate bene (infine gli vanno bene i sogni, gli affari, gli affetti) anche quando, ogni tanto, sarebbero dovute andare male.
La recensione in breve
Non ci sono dubbi sulla capacità di Fatih Akin di scandire con grande senso dell'intrattenimento la scalata malavitosa, e oltre, del protagonista di Rheingold. Ma il film danza tutto il tempo sull'orlo di un'ambiguità morale mai davvero interrogata, lasciando la sensazione di essere di fronte a poco più di un'agiografia.
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Voto CinemaSerieTV