Il film: Ricky Gervais: Armageddon, 2023. Regia: John L. Spencer. Cast: Ricky Gervais.Genere: stand-up comedy. Durata: 62 minuti. Dove l’abbiamo visto: su Netflix, in lingua originale.
Trama: Ricky Gervais spara a zero su diversi argomenti, incluse le reazioni contrastanti al suo speciale precedente.
Ci sono, essenzialmente, due versioni di Ricky Gervais: da un lato, l’autore comico che, prima in collaborazione con Stephen Merchant e poi da solo, si serve della risata per parlare di persone tristi e non del tutto compatibili con il mondo circostante; dall’altro, lo stand-up comedian con una maschera umoristica all’insegna dell’assenza di empatia, che spara a zero su qualunque argomento e contro chiunque, come ben sa chi ha visto le sue esibizioni come conduttore delle cerimonie dei Golden Globe (2009-2011, 2015, 2019) o i suoi spettacoli, dal 2018 parte integrante della strategia editoriale di Netflix. Ed è proprio in streaming che Gervais è tornato, in tempo per le festività natalizie, per prendersela ancora una volta con una vasta gamma di persone e tematiche, come cercheremo di approfondire in questa recensione di Ricky Gervais: Armageddon.
La fine del mondo?
Come suggerisce il titolo, lo speciale rientra nella filosofia un po’ pessimista di Gervais, che vuole parlare di come l’umanità si stia avviando verso l’estinzione. O almeno, questo sarebbe l’argomento principale, nelle intenzioni dello stesso autore, se non ci fosse un sassolino che lui assolutamente deve togliersi dalla scarpa: le reazioni non unanimemente positive al suo spettacolo precedente, SuperNature, e nello specifico per la presenza di materiale che prendeva di mira la comunità transgender (una controversia che ha colpito anche un altro comico attivo su Netflix, Dave Chappelle, il quale ammette allegramente di divertirsi a schernire i più deboli). Ed ecco che più di una volta viene tirato in ballo l’argomento del politicamente corretto, e che Gervais sia teoricamente libero di dire ciò che vuole, principio a cui aderisce con spudorata gioia (chi trovava offensivi i vecchi tweet di James Gunn riesumati nel 2018 non sopravvivrebbe un quarto d’ora guardando uno di questi speciali). E l’inevitabile disclaimer, obbligatorio da qualche anno per chi fa battute particolarmente pesanti, su come parlare di certi argomenti non faccia del comico un praticante delle cose menzionate (Gervais si spinge oltre sottolineando la discrepanza tra quello che pensa nella vita di tutti i giorni e ciò che dice sul palco).
Struttura, dove sei?
Che il co-creatore di The Office si sentisse in dovere di rispondere nero su bianco, anche con termini pesanti, non è una novità: è da circa due decenni che fatica a digerire ogni tipo di critica nei confronti dei suoi spettacoli (nel 2003, una recensione negativa lo spinse a denigrare il giornalista al termine di ogni rappresentazione successiva), e su Twitter è solito bloccare chiunque provi anche solo a suggerire che è meno divertente da quando si è separato artisticamente da Merchant. E la sua reazione non fa che confermare ciò che molti dicono della sua stand-up sin dagli inizi: le singole battute saranno anche efficaci, ma lo spettacolo non è strutturato in maniera tale da essere omogeneo sul piano umoristico per un’ora.
È un continuo salire e scendere, con cadute di ritmo dettate soprattutto dal desiderio di fare la predica su cosa sia lecito fare in ambito comico e cosa no. Certo, non è l’unico a fare queste considerazioni sul palco (basti pensare a Bill Burr, il quale però ha una presenza scenica e un senso della scrittura che rendono il pistolotto parte integrante della gag di turno), ma viene spontaneo chiedersi perché si senta in dovere di giustificarsi quando non si sta esibendo in un comedy club dove la gente non ha per forza scelto di vedere lui, ma con uno spettacolo tutto suo a cui il pubblico pagante, sia nelle arene e nei teatri che registrano il tutto esaurito, sia su Netflix, assiste con entusiasmo e cognizione di causa.
Il cane sopravvive?
Ci sono intuizioni simpatiche anche nel pistolotto, come quando Gervais, sulla falsariga di George Carlin (il cui celebre monologo sulle sette parole che non si possono dire in TV negli Stati Uniti – per la cronaca, si tratta di shit, piss, fuck, cunt, cocksucker, motherfucker e tits – era un surreale trattato di etimologia e semantica), propone ai bigotti di avere pazienza, in attesa che gli epiteti offensivi diventino accettabili; o quando, tirando in ballo un vero sito sul quale si può scoprire se i cani vengono maltrattati nei film (tematica con cui lui, animalista incallito, va a nozze), si interroga sui limiti di queste preoccupazioni (che senso ha, per esempio, chiedersi se sono i cani a fare una brutta fine in Schindler’s List?). Ma sono momenti scollegati fra loro, che rimangono lì senza approfondimento, abbandonati al loro destino mentre il loro autore passa al bersaglio successivo senza un vero filo conduttore (stratagemma accettabile solo se si è come Jimmy Carr, che spara frasi brevi a base di doppi sensi e giochi di parole con ritmo costante e non si perde in divagazioni). Gervais ha delle cose da dire, su questo non ci piove. Ma, salvo un cambio di approccio alla forma, è lecito chiedersi se la stand-up comedy sia il vettore giusto per i suoi pensieri.
La recensione in breve
Le idee potenzialmente brillanti ci sono, ma sono smorzate da un desiderio di rispondere alle critiche che incide sulla struttura umoristica dello spettacolo.
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Voto CinemaSerieTV