Film: Sì, Chef ! – La Brigade. Regia: Louis-Julien Petit. Cast: Audrey Lamy, François Cluzet, Chantal Neuwirth, Fatou Kaba, Yannick Kalombo. Genere: Commedia. Durata: 105’. Dove lo abbiamo visto: proiezione stampa.
Trama: Cathy è un sous-chef, ossia il braccio destro di una stella nascente della cucina francese, una giovane donna supponente e troppo sicura di sé. Per questo motivo lo scontro tra loro due sembra inevitabile ed arriva quando un piatto ideato dalla stessa Cathy viene messo in discussione e modificato. Un confronto che la porta a lasciare il ristorante ed una posizione che in molti le invidiano.
Un vecchio detto, però, dice che non tutti i mali vengono per nuocere ed è così che di fronte a lei si apre un’altra occasione inaspettata. Questa volta, però, non si tratta di cucinare per un ristorante stellato ma per un centro di accoglienza per migranti minorenni. Diretto da un uomo volenteroso e disposto a tutto per i suoi ragazzi, il posto non offre certo prestigio a Cathy ma, piuttosto, la possibilità di guardare dentro di se per capire quanta poca differenza ci sia tra lei e quei ragazzi pieni di speranza in cerca di un’occasione.
Dopo le prime difficoltà di comprensione caratteriale, dunque, nella cucina trova il luogo ed il linguaggio giusto per stringere un rapporto con loro. Tra fornelli, cipolle affettate e la realizzazioni di piatti complessi tutti loro diventano la brigade di Cathy, scoprendo di avere finalmente la loro possibilità.
Si dice spesso che la cucina abbia un potere taumaturgico, quasi curativo sull’anima delle persone. Questo vuol dire che un piatto non è destinato solo a nutrire il nostro corpo ma, soprattutto, la parte più emotiva ed interiore di ogni essere umano. Non stupisce, quindi, che proprio l’ambiente legato a quest’arte sia stato preso come palcoscenico sul quale mettere in scena una vicenda fortemente umana che, dal personale, si evolve fino ad assumere una valenza universale.
In questo caso il potere del cibo e, in modo particolare la forza evocativa, sono alla base di un film i cui intenti vengono svelati un passo alla volta, fino a stupire lo spettatore senza usare nemmeno un briciolo di effetti speciali. Essenzialmente con Sì, Chef! ci troviamo di fronte ad una di quelle vicende quotidiane, normali nel suo accadimento, che il cinema francese riesce a padroneggiare con naturalezza mettendo in evidenza l’eccezionalità attraverso uno stile asciutto, assolutamente minimalista.
In modo particolare, come vedremo dalla recensione di Sì, Chef! – La Brigade, si evidenzia il tocco naturale di Louis Julien-Petit nell’andare ad utilizzare un accadimento quotidiano e personale per creare una catena di causa/effetto capace di creare un’onda d’urto su di un ambiente più vasto. Ne Le invisibili, come in questo caso, il regista tocca delle tematiche sociali importanti con una naturalezza tale che ha quasi il sapore della casualità. In questo modo, partendo da un fatto circoscritto, si arriva ad avere la visione, anche se parziale, di un paese in continuo contrasto tra i suoi ideali democratici ed una realtà poco incoraggiante.
La trama: Il riscatto della cucina
Per Cathy essere uno chef è importante. La cura che mette nella scelta delle materie da utilizzare come nell’armonia di gusto e profumo rappresenta il senso stesso della sua esistenza, la rappresentazione della sua rinascita. Molti anni prima, infatti, era solo una ragazzina cresciuta in un istituto senza genitori.
La sua vita non sembrava offrirle molte opportunità fino a quando qualcuno non le aprì le porte della cucina insegnandole i segreti per padroneggiare quest’arte e per riscattare se stessa. Per questo motivo, dunque, approdare in un centro di accoglienza per giovani migranti per lei dovrebbe avere un valore speciale. Peccato, però, che non lo capisca subito.
Probabilmente in negazione del proprio passato a vantaggio di un presente ben più gradevole, accetta il ruolo di chef in questo luogo solo per necessità. Nonostante le difficoltà iniziali di armonizzarsi con questo luogo ed i suoi abitanti, però, trova un terreno di comunicazione attraverso la cucina.
Così, quasi senza rendersene conto, per quei ragazzi in attesa di permesso di soggiorno e scossi dal terrore di essere espulsi, compie il miracolo che precedentemente qualcuno aveva fatto per lei: offrire una possibilità. Ovviamente salvarli tutti è impossibile ma, grazie al suo impegno, riesce a rendere gli invisibili finalmente visibili.
Tra favola e realtà, ecco come si racconta l’attualità
Se c’è un aspetto del film diretto da Louis-Julien Petit che rimane impresso in modo favorevole è la sua capacità di sorprendere attraverso dei piccoli particolari e, in modo ancora più incisivo, grazie ad una gestione insolita dell’andamento della narrazione. È come se il regista avesse deciso di “imbrogliare” amabilmente il pubblico per non spaventarlo e condurlo, con delicatezza, verso delle tematiche potenzialmente poco rassicuranti.
L’attualità al cinema, soprattutto quella sociale, potrebbe spaventare uno spettatore medio, spingendolo a disertare determinati film. A rappresentare una barriera comunicativa, infatti, potrebbe essere proprio la messa in scena di una quotidianità che, diventando il focus di una storia, viene riprodotta attraverso una lente d’ingrandimento capace di mettere in evidenza errori e difetti più dei pregi. In questo caso, dunque, la reazione di molti potrebbe essere quella di volgere lo sguardo altrove per non doversi far carico di pesi emotivi e culturali anche durante un momento di svago.
Ma si sa che il cinema è la forma d’arte che nasce e trae ispirazione dalla realtà stessa. Per questo motivo non può esimersi dal considerarla. L’importante, però, è farlo nel modo giusto. Ed è proprio qui che si ritorna allo stile scelto da Petit. Partendo dal linguaggio scelto e, soprattutto, dal tono generale della narrazione, tutto segue l’andamento di una commedia. Uno stile che, pur introducendosi all’interno di ambiti e tematiche importanti, non cede mai il passo alla tragedia o ad un atteggiamento gravemente consapevole.
In questo senso, dunque, l’atmosfera è quella di una favola dal sapore concreto dove il “vissero felici e contenti” non è sempre possibile ma, almeno, l’umanità coinvolta prova a fare la differenza. Un effetto cui contribuisce soprattutto la personalità un pò ruvida di Cathy, rappresentata alla perfezione da Audrey Lamy, il cui senso dell’ironia ha spesso servito alla perfezione la commedia francese.
In questo caso, però, rappresenta l’escamotage narrativo perfetto per portare la tematica della migrazione, soprattutto minorile, all’interno di un film. Un risultato che si ottiene compiendo passi lievi e, soprattutto, attraverso un cambiamento del focus narrativo.
Inizialmente concentrata quasi esclusivamente sui movimenti ed i cambiamenti di Cathy, gradualmente la macchina da presa si sposta sui volti dei ragazzi che entrano nel suo spazio. In quel momento si comprende come il personaggio della Lamy sia essenzialmente un tramite, mentre la sua brigade rappresenti il cuore di tutta la vicenda. E non è certo un caso che, ad un certo punto, Cathy decida di cedere loro il palcoscenico.
I sogni degli invisibili
Lungi dal voler essere un film di denuncia sociale, la storia narrata da Petit è, più onestamente, una fotografia di un’umanità che, il più delle volte, viene riassunta in cifre e statistiche. Per questo motivo il regista non si sofferma sui numeri, che riempiono le notizie dei telegiornali, quanto sui volti ed i caratteri dei diversi ragazzi. A definire ancora di più i loro profili, poi, anche quei sogni riposti per così tanto tempo da non sembrare più possibili.
Nonostante le difficoltà affrontate per conquistare una possibilità di vita e le paure di fronte alla minaccia dell’espulsione, questi attendono solo un gesto, una mano tesa, per tornare a galla e prendere corpo. Ed è proprio grazie alla disciplina e alla creatività che regna all’interno di una cucina che si realizza la condizione giusta per nutrire ancora una volta delle speranze. Certo, non tutto è destinato ad una sicura riuscita ma capire, conoscere, tentare ed agire in favore di questa gioventù spesso negata è fondamentale perché vada sempre meglio.
E, se proprio si sente l’esigenza di cercare un significato etico o morale a questa storia, possiamo rintracciarla nella spinta a vedere e concretizzare ciò che tendiamo ad astrarre per rendere meno umano e, quindi, meno impattante sulle nostre vite. Perché se gli invisibili ed i loro sogni iniziano a prendono forma e concretezza, girarsi dall’altra parte diventa veramente impossibile.
La recensione in breve
Petit consegna un film importante dal punto di vista sociale e culturale utilizzando i toni lievi della commedia. Una scelta vincente che gli consente di descrivere un lato importante e contrastante della Francia, senza appesantire la narrazione con un atteggiamento fin troppo consapevole. Il suo scopo, infatti, non è farsi trovare preparato sul discorso migranti o conquistare l'apprezzamento di un certo pubblico per il suo impegno quanto, piuttosto, dare visibilità a chi non ce l'ha. Scoprire e narrare tutta la sfaccettata umanità che si nasconde dietro le statistiche.
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