Il film: Studio 666, 2022. Regia: BJ McDonnell. Genere: Horror, commedia. Cast: Dave Grohl, Nate Mendel, Pat Smear, Chris Shiflett, Rami Jaffee, Taylor Hawkins, Jenna Ortega, Will Forte. Durata: 106 minuti. Dove l’abbiamo visto: Netflix.
Trama: I Foo Fighters si trasferiscono in una villa infestata per registrare il loro decimo album. Una volta in casa, Dave Grohl si ritrova alle prese con forze soprannaturali che minacciano sia il completamento dell’album che la vita dei membri della band.
Se la prima battuta di un film celebra Dune di David Lynch e l’uso delle branchie in Waterworld di Kevin Costner, quel film cattura subito la nostra attenzione. È una dichiarazione d’intenti smaccata che mette le carte in tavola: non aspettatevi serietà. Ecco perché Studio 666 di BJ McDonnell ci è piaciuto tanto. Non si prende sul serio, è ben conscio dei suoi “difetti” e nonostante questo, marcia spedito verso la meta supportato da un umorismo piacevole. Ovviamente ci è piaciuto anche per la presenza di Dave Grohl e dei Foo Fighters che in questo horror sui generis si sono presi in giro alla grande. Come vedremo nella recensione di Studio 666 non ci troviamo di fronte a un film compiuto in ogni sua parte, ma di sicuro è un’opera spassosa e anche intelligente.
Faust è tornato
I Foo Fighters devono (e l’imperativo è categorico) scrivere il loro decimo album, quello della consacrazione definitiva. Dave Grohl, però, è un pozzo prosciugato. Non ha più vena creativa e ha bisogno di qualcosa di diverso per realizzare il suo capolavoro. Il discografico Grant, allora, gli propone di registrare il disco in una villa di Encino. Un luogo misterioso, dall’acustica perfetta, in cui il gruppo potrà riunirsi, ritrovarsi e finalmente creare. Tutto perfetto. Se non per un piccolo particolare: la casa anni prima era stata il teatro di un massacro operato proprio dal leader di una rock band.
Grohl e soci si insediano nella lussuosa abitazione che, al netto di una vicina invadente (ex groupie di successo), sembra un posto ideale. Ovviamente, iniziano a succedere strani fenomeni. Grohl viene come posseduto da uno spirito demoniaco che, in cambio della sua “anima”, restituisce al musicista una forza mai avuta fino a quel momento. Quello spirito è legato al libro di incantesimi del celebre occultista inglese Aleister Crowley (era anche sulla copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band). E Grohl deve portare a termine una canzone per realizzare il disegno malefico voluto dall’entità.
American Rock Horror Story
Fantasmi, corpi trafitti e martellati, grigliati e segati in due, con grande attenzione sulle interiora (anzi, esteriora, visto che le guardiamo). C’è davvero tutto il repertorio dell’horror classico in Studio 666 e si mescola a battute salaci, freddure varie e maliziosi doppi sensi. Questo film è un gigantesco divertissement che se non ha un valore assoluto dal punto di vista cinematografico fa tanto ridere. E anche riflettere. Ogni passaggio è volutamente esagerato, anche i singoli movimenti nello spazio dei personaggi, che si spostano proprio come ci aspetteremmo in un horror.
Se vogliamo è il frutto perfetto della deriva citazionista di questi anni post-moderni, ma con un’ironia che lo salva e ne minimizza i difetti. Quando vediamo John Carpenter, anche autore della canzone dei titoli di testa, al mixer mentre sistema il pezzo suonato da Grohl proviamo un sussulto più che giustificato, ma la parte nostalgica non è certo quella predominante qui. Il film si affloscia nella sua parte centrale, proprio quando avrebbe dovuto costruire con maggiore solidità la strada verso l’epilogo parossistico. Tuttavia, lo spirito grottesco che aleggia sulla storia è sufficiente a dissipare i dubbi relativi alle parti che narrativamente tengono di meno.
Tra risate e sangue
Studio 666 è un horror che fa ridere o una commedia horror? Non c’è una risposta univoca al quesito, perché alla fine della fiera vanno entrambe bene. I momenti più spaventosi, che sono a loro volta un omaggio agli splatteroni anni ’80, quindi fondamentalmente innocui, sono smorzati da una grande sarcasmo di fondo, che talvolta sfocia nella comicità. L’animo da commedia del film è connaturato alla personalità artistica di Grohl che non ha mai fatto mistero di amare una certa leggerezza narrativa. Basti pensare, per esempio, ai video parodia dei Foo Fighters che prendevano di mira gli spot pubblicitari degli anni ’80-’90, con le mossette delle attrici e gli sviluppi narrativi artificiosi.
Grohl è un rockettaro di primissima categoria, testimone di quella grande rivoluzione musicale che hanno incarnato i Nirvana, ma ha una cifra comica molto spiccata. E questa pervade tutto il film che sì, è un grande gioco autoreferenziale. Ma un’autoreferenzialità simpatica, che non si prende mai sul serio. Non crediamo insomma che il frontman dei Foo Fighters abbia mai pensato di realizzare il capolavoro in grado di riscrivere gli horror dalle fondamenta. Quanto di dare il suo contributo a un genere molto peculiare, con un tocco personale sfacciato.
Se il diavolo suona la chitarra
Studio 666 parte con un delirante incontro nell’ufficio dei discografici dei Foo Fighters che pretendono da loro un grande successo musicale. Forse il vero diavolo si annida lì, tra scrivanie linde, segretarie operose e manager che cercano di spremere fino all’ultima goccia di creatività dai loro assistiti. Grohl, insomma, ci dice che il vero horror non è tanto la crisi creativa dell’artista (è dai tempi di Jack Torrance che questa cosa è certa), quanto la gestione di questo “dramma” da parte di chi ti dovrebbe sostenere.
Non è un j’accuse politico, e basta vedere l’esilarante sequenza con Lionel Richie che in un’allucinazione obbliga Grohl a lasciarlo in pace e a non saccheggiare i suoi successi, ma certamente è una riflessione che ha un suo valore. Soprattutto considerato il fatto che Grohl stesso ha visto con i suoi occhi lo spegnersi inesorabile di Kurt Cobain. In Studio 666 l’atmosfera è ilare e giocosa, sia chiaro, ma il fatto che uno dei protagonisti si tolga la vita per cancellare la maledizione è comunque un fattore emotivo rilevante. Il grunge, che Grohl omaggia chissà quanto consapevolmente indossando la camicia a scacchi rossi e neri, nacque negli anni ’90 come opposizione al sistema musica. Quando i discografici, però, si resero conto della potenzialità di quel movimento, ci si buttarono a pesce. E proprio come il demoniaco manager di Studio 666 rubarono l’anima ai suoi eroi.
La recensione in breve
Studio 666 non salva vite né propone argute argomentazioni sulla società, ma ha un grande pregio: la sua grande leggerezza. Diverte, cita qua e là, dà zampate al sistema musica. E alla fine il suo compito lo porta a termine.
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