Il film: La zona d’interesse, 2023. Regia: Jonathan Glazer. Cast: Christian Friedel e Sandra Hüller. Genere: Drammatico. Durata: 106 minuti. Dove l’abbiamo visto: al Festival di Cannes, in lingua originale.
Trama: Rudolf Höss e sua moglie Hedwig vivono un’idilliaca esistenza nei pressi del campo di concentramento di Auschwitz: lui lo gestisce con efficienza, lei si gode i benefici che il suo status di “regina di Auschwitz” le garantiscono.
Di film che raccontano l’olocausto dal punto di vista delle vittime, dei prigionieri dei campi di concentramento, che mostrano gli orrori dell’odio per come veniva subito in prima persona, ne abbiamo visti tanti. Il panorama è decisamente più scarso, invece, se si tratta la prospettiva opposta; film che raccontano il punto di vista dei carnefici ce ne sono diversi, anche se spesso faticano a trovare la giusta sensibilità per raccontare l’entità di quell’orrore.
Come vedremo in questa recensione di La zona d’interesse, l’ultimo film di Jonathan Glazer presentato a Cannes 2023, ispirandosi liberamente al romanzo di Martin Amis, trova una chiave di lettura inaspettata per mettere in scena la banalità del male con estrema lucidità. La narrazione prende a tratti derive stilistiche che stonano con il tono del resto del racconto, e di cui si poteva fare a meno, ma comunque il film non fallisce nel colpire profondamente lo spettatore.
La trama: vivere serenamente ad Auschwitz
Quella composta da Rudolf Höss (Christian Friedel) e da sua moglie Hedwig (Sandra Hüller) è una coppia innamorata, che vive una vita serena e a contatto con la natura insieme ai loro numerosi figli. Scampagnate sul fiume, picnic nei prati, la cura del giardino e dell’orto: la loro è un’esistenza bucolica invidiabile, disturbata forse solo dai rumori incessanti provenienti dal campo di concentramento adiacente alla loro villetta, gestito proprio da Rudolf. L’affettuoso padre di famiglia è infatti il comandante delle SS, incaricato di tutte le operazioni svolte all’interno di Auschwitz, dall’arrivo dei prigionieri alla loro eliminazione. Al centro delle sue preoccupazioni, oltre al benessere dei suoi cari, c’è come rendere sempre più efficiente l’operazione di sterminio portata a termine nel suo campo: un lavoro che deve svolgere alla perfezione e con velocità, proprio come richiede il suo Führer.
Per Hedwig, invece, le giornate sono tutte casa e famiglia: la donna vive un’esistenza beata aiutata dai domestici ebrei impiegati dal campo, la cura delle sue piante e dei suoi bambini, e l’infinito flusso di beni – vestiti, pellicce, gioielli, cosmetici – sequestrati ai prigionieri; è la “regina di Auschwitz”, come tutti la chiamano, e lei non potrebbe essere più felice della sua situazione. Le cose, però, potrebbero cambiare: quando il marito viene trasferito in un altro campo, il quadretto idilliaco che si è costruita potrebbe andare presto in frantumi…
Il punto di vista dei carnefici
Come vi anticipavamo in apertura, Glazer trova una giusta chiave narrativa per raccontare la banalità del male con efficacia: mostrando esclusivamente la prospettiva distaccata dei carnefici, l’autore ci permette di percepire con ancora più chiarezza l’entità dell’orrore di cui i protagonisti sono attivi partecipanti. La scelta di non mostrare mai l’interno dei campi, ma solo la vita quotidiana della famiglia Höss, racconta con ancor più lucidità i crimini di cui sono responsabili.
Un bambino che gioca tranquillamente mentre fuori dalla sua finestra qualcuno viene ucciso, una madre che si prova vanitosa un rossetto trovato nelle tasche di una pelliccia appartenuta a qualcun altro, una famiglia che pranza in giardino, mentre sullo sfondo i fumi dei forni crematori oscurano il cielo. Il disincanto di Höss diventa ancor più destabilizzante quando, ad una festa del partito, gli viene proposto di occuparsi dell’azione contro gli ebrei ungheresi, sempre ad Auschwitz, e lui racconta emozionato alla moglie come stia già pensando a come sterminarli più velocemente ed in modo più efficace.
Un finale che colpisce
La scena della festa del partito è funzionale ad un finale che cerca di ribadire il messaggio del film: in una visione profetica del futuro, Glazer ci mostra – ed insieme a noi al suo protagonista – la freddezza del museo dell’Olocausto ad Auschwitz, quando le inservienti puliscono forni e teche in attesa dei visitatori del giorno: le donne che con distacco spazzano e spolverano i luoghi di morte e di commemorazioni non possono che ricordare la famiglia Höss, che coesisteva – consapevolmente – con un indicibile orrore. Una sequenza certamente d’impatto, ma che forse risulta un po’ lasciata a se stessa, e sarebbe potuta essere spunto per approfondimenti ancor più interessanti. Un po’ fini a se stesse sono anche alcune scene che inframezzano il film – come quella della bambina che lascia cibo ai prigionieri, di notte, realizzata con una sperimentazione digitale “in negativo” – che sembrano più sterili esercizi di stili che escamotage narrativi carichi di un significato.
Detto questo, comunque, La zona d’interesse è uno di quei film che non possono lasciare indifferenti, a cui si pensa e ripensa a titoli di coda terminati. Resterà tra i titoli che più sono stati capaci di raccontarci, con chiarezza agghiacciante, gli estremi di cui l’essere umano è capace e come anche il peggiore degli orrori possa trasformarsi in banale quotidianità.
La recensione in breve
Il film di Jonathan Glazer racconta con agghiacciante realismo l'orrore dell'Olocausto, scegliendo una prospettiva interessante per farlo. Peccato per alcuni esercizi di stile un po' fini se stessi ad inframezzare la narrazione.
- Voto CinemaSerieTV