Il film: Wolverine – L’immortale (The Wolverine), 2013. Regia: James Mangold. cast: Hugh Jackman, Hiroyuki Sanada, Tao Okamoto, Rila Fukushima, Svetlana Khodchenkova, Brian Tee, Haruhiko Yamanouchi, Will Yun Lee, Famke Janssen. Genere: azione, fantascienza. Durata: 126 minuti. Dove l’abbiamo visto: su Disney+, in lingua originale.
Trama: Dopo aver ucciso Jean Grey, Wolverine vive da eremita, ma le cose cambiano quando viene invitato in Giappone per vedere un vecchio amico…
Dopo il suo primo, altalenante film in solitario, uscito nel 2009, era giusto che il più famoso degli X-Men ricevesse il trattamento che merita nel secondo lungometraggio a lui dedicato, di cui parliamo nella nostra recensione di Wolverine – L’immortale.
La trama: ritorno al passato
Sono passati quasi dieci anni dagli eventi di X-Men: Conflitto finale, alla fine del quale Wolverine fu costretto a uccidere l’amata Jean Grey, divenuta la temibile Fenice Nera. Roso dai sensi di colpa, e tormentato dal ricordo di lei che puntualmente si manifesta nei suoi sogni, Logan ha lasciato la squadra e si è ritirato a vita privata nello Yukon, dove limita al minimo indispensabile il contatto con le altre persone. Poi, un giorno, incontra una certa Yukio, mutante giapponese dotata di poteri di preveggenza, che lo invita a venire in Giappone su richiesta di un vecchio amico: Ichiro Yashida, che Logan aveva salvato nel 1945 durante la distruzione di Nagasaki (uno dei pochi ricordi prima del 1985 che il protagonista ha conservato). Ufficialmente si tratta di dare l’ultimo saluto a un amico in fin di vita, ma una volta arrivato sul posto Wolverine capisce che non tutto è come sembra…
Il cast: Logan in terra straniera
Per la quinta volta nei panni di Wolverine (incluso il cameo in X-Men: L’inizio) c’è Hugh Jackman, anche produttore della pellicola, e dai film precedenti torna anche Famke Janssen nel ruolo di Jean, presenza ricorrente sotto forma di allucinazione/incubo. Sul fronte giapponese il cast è composto da Tao Okamoto (Mariko, che nei fumetti è stata a lungo la compagna del mutante canadese), Rila Fukushima (Yukio), Hiroyuki Sanada (Shingen, il padre di Mariko), Haruhiko Yamanouchi (Ichiro Yashida) e Will Yun Lee (Harada, guardia del corpo della famiglia Yashida, basato sul Silver Samurai dell’universo Marvel cartaceo). Come nel precedente film dedicato a Wolverine, non c’è un cameo di Stan Lee, solitamente assente se non era lui il creatore del personaggio principale (con qualche eccezione come il primo lungometraggio di Deadpool).
Pensare “in piccolo”
Per la seconda avventura in solitario di Logan, liberamente basata sulla miniserie a fumetti di Chris Claremont e Frank Miller che fece da apripista per il suo mensile personale, la regia è stata affidata a James Mangold – che aveva già diretto Jackman nella commedia romantica Kate & Leopold – e si è volutamente passati a qualcosa di meno bulimico rispetto al film del 2009. Laddove quello, nella seconda metà, diventava a tutti gli effetti un quarto episodio ufficioso della saga cinematografica degli X-Men, con gli scarti dei capitoli precedenti (Gambit su tutti), qui l’attenzione rimane focalizzata su Wolverine, sui suoi tormenti, sulla sua esistenza eterna e dolorosa.
Col senno di poi, una prova generale per il successivo Logan – The Wolverine, sempre di Mangold, che approfondisce ulteriormente il discorso sulla morte che, forse anche per questioni di target, negli altri film è appena accennato, visibile soprattutto negli occhi provati dell’attore australiano, che fin dal 2000 ha saputo trasmettere con efficacia la tristezza di un personaggio che ha perso tutto e, peggio ancora, non ricorda gran parte di ciò che ha perso.
Intrattenimento nipponico
Dove il film convince leggermente di meno è nella parte finale che, per quanto coerente con il discorso generale avviato da Mangold, non riesce a non cedere alla tentazione di una CGI a tratti molto vistosa che penalizza alcuni dei momenti action, dandogli un’estetica eccessivamente fumettosa che cozza con l’atmosfera più “terra terra” scelta dal regista (il quale ha saggiamente escluso dal montaggio finale una scena di puro fan service dove si intravedeva il classico costume di Wolverine).
Particolarmente ammirevole il modo in cui Mangold riesce a integrare in una mastodontica produzione americana la componente giapponese senza mai ridurla a macchietta, anche in momenti potenzialmente troppo hollywoodiani come la battaglia a bordo del bullet train. Un momento che, anni dopo l’uscita, rappresenta anche, insieme al resto del film, una boccata d’aria fresca nel contesto del franchise più vasto, con una storia più contenuta e personale, lontana dalla (pur valida) metafora della discriminazione che ha dominato quasi tutti gli X-movies della 20th Century Fox.
La recensione in breve
Al secondo giro, le avventure in solitario di Wolverine acquisiscono lo spessore che mancava nel primo capitolo, complice la trasferta in Giappone e la regia di James Mangold, attento al lato umano del personaggio.
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