Il film: World War III (Jang-e Jahani Sevom), 2022. Creato da: Houman Seyyedi. Cast: Mohsen Tanabandeh, Neda Jebreili, Mahsa Hejazi, Navid Nosrati.
Genere: drammatico. Durata: 1 h, 57 minuti. Dove l’abbiamo visto: in anteprima mondiale alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia, in lingua originale.
Trama: Shakib è un povero bracciante iraniano che si ritrova per puro caso a lavorare sul set di un film dedicato agli orrori della seconda guerra mondiale. La produzione dovrebbe mettere in scena una condanna delle dittature, ma, a seguito di una tragica fatalità, i produttori finiscono per trasformarsi anch’essi in dittatori spietati e pronti a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi.
“La storia non si ripete, ma spesso fa rima”. È questa suggestiva citazione di Mark Twain ad aprire il film del regista iraniano Houman Seyyedi, e nella frase si cela già tutto il significato di una narrazione che, a partire dallo sgangherato backstage di una produzione cinematografica sulla seconda guerra mondiale, ci mette in guardia su come il male sia sempre in agguato nel cuore dell’uomo. Per chi volesse saperne di più, ecco la nostra recensione di World War III (Jang-e Jahani Sevom).
La trama: un incidente sul set scatena un abisso di crudeltà e meschinità
Il povero Shakib è un tuttofare, e si guadagna da vivere lavorando alla giornata. Pulizie, mense, edilizia, carpenteria: per quanto dura e faticosa, non c’è mansione che Shakib non sia disposto a svolgere, con tanta umiltà e senso del dovere. La sua è un’esistenza profondamente solitaria: la moglie e il figlio sono morti in un terremoto, e il suo unico legame affettivo è con la sordomuta Ladan, di cui l’uomo è profondamente innamorato.
Un giorno, però, la sua vita conosce una svolta improvvisa: il cantiere in cui lavora viene convertito nel set di un film dedicato agli orrori della seconda guerra mondiale, e Shakib riceve una prospettiva di lavoro di lungo termine, uno stipendio più alto, un posto stabile dove dormire e, ben presto, addirittura un ruolo di spicco nel cast, venendo fortuitamente chiamato ad interpretare Adolf Hitler!
La sua fortuna, però, rischia improvvisamente di svanire quando Ladan si presenta sul set e gli chiede ospitalità per sfuggire a una brutta storia di ricatti e sfruttamento: il protagonista decide accoglierla di nascosto nell’abitazione che gli è stata assegnata, ma questo fa precipitare pure lui nella spirale dei problemi della ragazza. Le cose, però, sono destinate a cambiare ancora, drasticamente: una notte, credendo che la villa sia abbandonata, il regista la fa esplodere per esigenze narrative, causando la tragica morte di Ladan.
Anche il passo narrativo, fino a quel momento incerto e privo di incisività, muta in maniera repentina, e si trasforma in una lucida e impietosa fotografia della crudeltà e meschinità dell’animo umano: Shakib spiega ai vertici della produzione quanto è appena successo, ma costoro decidono di insabbiare ogni cosa per evitarsi qualsiasi tipo di problema, trasformando così la vita del protagonista in un autentico inferno. A un tratto, gli orrori dei regimi totalitari a cui è dedicata la produzione sembrano nuovamente risvegliarsi, e lo sventurato Shakib si ritrova a lottare contro un’enorme macchina impersonale, decisa a riscrivere la verità e cancellare ogni voce dissenziente.
Spinto dalla disperazione, anche lui finirà per trasformarsi irreversibilmente…
Il cast: una memorabile performance di Mohsen Tanabandeh
A rendere davvero memorabile e autentico il film, che pure nella prima parte non è certo esente da problemi narrativi, è la strepitosa performance di Mohsen Tanabandeh. Il pluripremiato attore (e, altrove, regista) iraniano riesce nella difficile impresa di dare vita a una figura poliedrica e complessa come quella di Shakib con una recitazione intensa e viscerale, capace di catturarne tanto i momenti più umani e affettuosi quanto gli abissi di desolazione più profonda.
Con la sua formidabile prova attoriale, Tanabandeh magnetizza l’attenzione dello spettatore e riscatta alcune incertezze espositive della sceneggiatura nel primo atto del racconto, facendoci immedesimare nello sventurato Shakib e, soprattutto, interiorizzare il significato filosofico del film.
Positiva anche la prova offerta dal resto del cast, che nella seconda metà del lungometraggio mette efficacemente in scena le dinamiche fredde, ciniche e disumane di un regime totalitario, pronto a calpestare il valore e la dignità della vita umana per un obiettivo astratto e immateriale quale, in questo caso, la tutela della produzione cinematografica.
Il bi-pensiero e la banalità del male
George Orwell, nel suo celebre 1984, lo chiamava “bi-pensiero”: è la caratteristica più tipica dei sudditi di un regime totalitario, e consiste nella capacità di accettare, interiorizzandolo e facendolo proprio senza discutere, qualsiasi cambiamento della realtà, restando sempre fedeli alla linea dettata da chi comanda.
Un lontano ricordo di orrori passati? Neanche per sogno: perfino sul set di un film nato per condannare le pagine più buie del Novecento, il bi-pensiero può fare ritorno e colpire senza pietà gli ultimi e gli umili, come Shakib. Eppure, noterà lo spettatore, le prove ci sono, e la spiegazione offerta dai responsabili delle riprese fa chiaramente acqua da tutte le parti: ciò nonostante, tutta la troupe si precipita in massa a firmare una testimonianza che suffraga la versione ufficiale, e condanna Shakib. Non importa se la linea difensiva cambia continuamente, affermando dapprima che non è morta nessuna donna, e poi che Shakib era stato informato dell’esplosione della casa: il bi-pensiero del vero suddito è agile, e si sposta automaticamente con il mutare della propaganda del regime.
Ma soprattutto, il film riesce a rappresentare in maniera chiara ed evidente un altro concetto, ossia quello della “banalità del male” di cui parlava la filosofa ebrea Annah Arendt: i veri artefici dei più grandi orrori del Novecento non furono i leader come Hitler, animati da un’ideologia crudele o persino demoniaca, bensì una schiera enorme, grigia e anonima di “piccoli uomini”, incapaci di cogliere la vastità del disegno d’insieme e di comprendere la mostruosità del proprio operato, ma orientati soltanto al meschino egoismo e alla miope ricerca del proprio tornaconto personale.
“Il guaio del caso Eichmann – scrisse la Arendt, espressamente citata anche nelle note di produzione del regista – era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”. Un chiaro esempio di quest’ultima categoria è offerto proprio dalla troupe con cui lavora Shakib, che ignora senza il minimo scrupolo la tragica morte di Ladan, e fa di tutto per coprire l’operato dei responsabili.
La recensione in breve
Superato lo scoglio di un primo atto debole e privo di mordente, la storia di World War III ci conduce negli abissi della meschinità umana e ci fa scoprire che, ieri come oggi, l’uomo è pronto a tutto per raggiungere i suoi egoistici interessi. Grazie alla strepitosa prova attoriale di Mohsen Tanabandeh, il film ci fa compiere un autentico “viaggio nell’oscurità”, e ci induce a riflettere su quanto le pagine più nere del Novecento non siano poi così tanto lontane da noi.
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