Da trent’anni Schindler’s List è parte integrante della cultura popolare mondiale (e dei palinsesti televisivi per la Giornata della Memoria), il film che ha consacrato Steven Spielberg come regista capace di affrontare argomenti seri oltre che girare blockbuster (con tanto di Oscar per la regia, il primo di due che il cineasta ha vinto finora). Un’opera potente, che ricorda uno degli episodi più tragici della Storia recente con precisione e sobrietà (Roman Polanski, a cui fu proposta la regia, rifiutò proprio perché il suo vissuto personale – la madre fu uccisa ad Auschwitz – gli impediva di avvicinarsi alla materia con la giusta distanza). E tra gli elementi più potenti c’è la duplice conclusione, nel 1945 e nel 1993. Proviamo a capire perché in questa nostra spiegazione del finale di Schindler’s List.
Una storia vera
Quello che racconta Schindler’s List, adattando il libro di Thomas Keneally, è l’episodio incredibilmente e dolorosamente vero delle azioni di Oskar Schindler, industriale tedesco che, tramite sotterfugi e mazzette, riuscì a salvare 1.200 ebrei dallo sterminio sfruttando i suoi rapporti ufficialmente amichevoli con le alte sfere naziste per avere manodopera nelle sue fabbriche con la scusa di stare lavorando agli armamenti hitleriani. Uno sforzo umanitario che lo lasciò in povertà per il resto della vita, con le donazioni dei superstiti come principale fonte di sostentamento economico fino alla sua morte nel 1974. Al momento del suo decesso aveva una sola richiesta: di poter essere sepolto a Gerusalemme. Così fu, il che fa di Schindler l’unico membro del partito nazista ad aver avuto diritto a tale onore, e alla fine del film di Spielberg c’è anche una visita alla sua tomba, una scena concepita a riprese già iniziate, con qualche complicazione logistica per rintracciare tutti i partecipanti necessari.
“Chi salva una vita, salva il mondo intero”
Il film si chiude inizialmente con l’addio di Schindler alle persone che ha salvato, con il contabile Itzhak Stern che lo ringrazia a nome di tutti con un anello recante la scritta talmudica “Chi salva una vita, salva il mondo intero”, insieme a una lettera contenente la dichiarazione firmata che l’industriale, ufficialmente ricercato per la sua affiliazione al partito nazionalsocialista, non è da considerare un criminale di guerra. Schindler, visibilmente commosso, comincia a piangere e dire che avrebbe potuto salvare molti più ebrei, rendendosi conto sia dell’enormità del suo gesto che delle dimensioni spropositate del conflitto di cui ha solo in piccola parte modificato l’esito. Ma l’ultima parola del lungometraggio non spetta a lui, bensì al sadico Amon Göth, impiccato per crimini contro l’umanità. Un’uscita di scena preceduta da un misurato “Heil Hitler”, una di due volte in tutto il film che si sente tale frase e qui simbolo della sconfitta fisica ma non ideologica di un pensiero di odio che rimane in vita ancora oggi, e che è all’origine del motivo per cui Spielberg ha deciso di portare sullo schermo la storia di Schindler.
Contro l’oblio
Dopo l’acquisto dei diritti del libro nel 1982, Spielberg ha aspettato dieci anni prima di girare il film, in parte perché non si riteneva abbastanza maturo per farlo all’epoca, e in parte perché gli mancava uno stimolo tremendo arrivato con la caduta del muro di Berlino: l’ascesa del neonazismo e la diffusione di teorie negazioniste sulla Shoah (anche in ambienti di un certo prestigio, dato che tra i più noti detrattori della realtà c’era uno storico inglese, David Irving). E così, oltre a girare il lungometraggio su Schindler, il regista ha anche istituito, finanziandolo con la sua percentuale dei guadagni del film, la Shoah Foundation, associazione benefica che raccoglie testimonianze audiovisive di chi è sopravvissuto alla Shoah (e altri genocidi) per mantenere vivo il ricordo di tali atrocità e opporsi a chi vorrebbe sminuire e relegare al dimenticatoio tali tristi pagine della storia umana.
Pertanto, dopo aver chiuso la ricostruzione fittizia della vicenda di Schindler, Spielberg passa al presente, con l’unica sequenza interamente a colori, dove i veri Schindlerjuden ancora vivi all’epoca delle riprese, accompagnati dagli attori che li interpretano, visitano la tomba del loro salvatore e lasciano dei sassi sulla lapide, secondo la tradizione ebraica. Infine, Liam Neeson, che ha prestato il corpo all’industriale ed è inquadrato da lontano, lascia due rose (anche se inizialmente si pensava che quello fosse un cameo di Spielberg). A suo modo, anche il film vuole salvare una vita e con essa il mondo intero, ricordando che quanto abbiamo visto, al netto di poche licenze poetiche per motivi drammaturgici (Stern è un ibrido di tre persone diverse), era assolutamente vero. E dimenticarlo sarebbe dannoso per l’intera umanità.