Quando nel 1995 Seven è arrivato sul grande schermo immediatamente è stato salutato come il thriller perfetto. Un giudizio che è andato crescendo con il corso del tempo. Ad oggi, infatti, il film diretto da David Fincher ed interpretato da Brad Pitt, Morgan Freeman e Kevin Spacey, è considerato un vero e proprio cult del genere. Un’esperienza visiva e narrativa dalla quale non si può prescindere se si è degli appassionati del racconto thriller/poliziesco con risvolti psicologici.
Ma qual è l’elemento che ha garantito a Seven questa sorta d’immortalità tra il pubblico? Un particolare fondamentale è, senza dubbio la scelta di una fotografia dai colori saturati ed un’ambientazione scura. Andando oltre gli aspetti puramente estetici, però, ciò che ha determinato l’effettiva qualità di questa storia è tutto l’apparato psicologico che va ad esprimere il massimo del suo potenziale in uno dei finali più sconvolgenti del cinema.
In gioco, infatti, non solo viene messo il concetto di peccato e punizione ma, soprattutto, la caducità della natura umana. Se a questa, poi, si aggiunge anche l’ingiustizia di base della vita, si ottiene un film che non offre consolazione alcuna, se non quella di continuare a lottare per ottenere per sè una labile speranza di miglioramento. Per comprendere meglio gli aspetti più interessanti del film la nostra spiegazione del finale di Seven.
Un epilogo senza un nuovo ordine
Se si osservano con attenzione le regole del genere thriller, anche di quello più efferato ed esteticamente senza filtri, questo è caratterizzato da un elemento essenziale. Al termine di tutta la parabola narrativa si arriva alla struttura di un nuovo ordine. Ovviamente non è possibile parlare di un vero e proprio happy ending, quanto di un nuovo inizio. Una sorta di ripartenza per aggrapparsi alla speranza di una possibilità migliore per il futuro.
Così, dopo una serie di efferati omicidi o di azioni emotivamente sconvolgenti, allo spettatore viene offerta una possibilità di respiro. Un luogo dove potersi rifugiare mentalmente ed allentare la tensione accumulata. Si tratta, dunque, di una sorta di teorema che viene applicato in modo quasi automatico, fatta eccezione proprio per Seven. Ed è da questo rifiuto della “regola” aurea che scaturisce l’effettivo potere rivoluzionario del film. Oltre, naturalmente, alla sua forza devastante dal punto di vista emozionale.
Fincher, infatti, decide di costruire una tensione crescente che, delitto dopo delitto, deve condurre verso un epilogo dall’incredibile forza evocativa. Perché, andando oltre qualsiasi aspettativa, il regista riesce a costruire uno dei thriller più coinvolgenti e sconvolgenti, offrendo allo spettatore un ruolo quasi attivo. Nel momento in cui i detective William Somerset e David Mills vengono accompagnati dal killer John Doe per scoprire le ultime due vittime, s’innesca una sorta di dialogo stretto tra quanto avviene sullo schermo e la sala. Fincher, con grande consapevolezza dei meccanismi mentali ed emotivi, decide di offrire solamente degli input senza indulgere nell’esternazione senza filtri della violenza.
Per questo motivo, uno degli elementi essenziali della narrazione diventa la scatola all’interno della quale Somerset vede uno spettacolo raccapricciante e doloroso. A comunicare questa rivelazione, però, è solamente la forza del suo volto e il disperato tentativo di tenere Mills lontano da quello spettacolo. A quel punto la consapevolezza all’interno dello spettatore diventa tangibile. Questo vuol dire che s’innesca un processo di rappresentazione fantasiosa più efficace di qualsiasi immagine mostrata. Una rappresentazione che ha il sapore della fine imminente e della catastrofe che incombe sui gusti senza possibilità di ritorno.
William Somerset e David Mills, la giustizia che perde
Tutta la narrazione segue i movimenti di due uomini che, nonostante le loro differenze, perseguono lo stesso desiderio e il medesimo stile di vita. William Somerset e David Mills, infatti, sono due detective che si trovano a seguire una serie di delitti fin troppo peculiari. Ogni vittima, infatti, è caratterizzata da una morte specifica e particolare, accompagnata da una scritta che si riferisce ad uno sei sette peccati capitali. Da qui si comprende che il serial killer interpreta se stesso come una sorta di angelo giustiziere, il cui compito è quello di purificare il mondo dal peccato.
Un contorto percorso mentale, dunque, che i due colleghi seguono facendo affidamento a delle condizioni e convinzioni del tutto personali. Somerset, ad esempio, ha il passo stanco ma anche ben calibrato di chi porta sulle proprie spalle molti anni di servizio. La sua esperienza l’ha messo a confronto con un numero così ampio di delitti e morti violente da non rimanere sconvolto di fronte a nulla. Almeno così sembra. Allo stesso tempo, però, ha perso mordente e desiderio di lottare per arrivare alla soluzione. Prossimo alla pensione, infatti, non vede l’ora di distogliere lo sguardo da tutta quella violenza.
Mills, al contrario, è giovane, pieno di fervore ed energia. La sua vita famigliare felice non lo distoglie certo da quello che sente essere come una sorta di missione personale. Il suo immenso amore per la moglie Tracy e la cieca abnegazione per una professione che carica di un preciso valore etico, però, saranno anche i suoi punti deboli. Quelli che lo condurranno alla perdizione totale, diventando, al tempo stesso, vittima ed esecutore. A quel punto, di fronte alla caduta di Mills, spetterà a Somerset il compito di aggrapparsi alla flebile convinzione che vale sempre la pena lottare per il mondo, nonostante questo decisamente non sia un bel posto.
Benvenuti all’inferno
Senza fare troppi misteri David Fincher ha costruito la struttura narrativa di Seven come una sorta d’Inferno dantesco all’interno del quale punire i sette vizi capitali. Un giudizio che si abbatte su chiunque si macchi, per convinzione o momentanea debolezza, di uno di loro. In questo caso, dunque, non ci sono attenuanti. Almeno non agli occhi del regista e del suo “angelo” vendicatore che, accecato dalla follia, si arroga il diritto di punire e purificare.
E proprio per terminare il suo compito, John Doe decide di condurre i due detective nella solitudine desertica. Qui fa il suo ingresso in scena un pacco all’interno del quale c’è la testa di Tracy, la moglie di Mills. L’uomo, infatti, si è macchiato d’invidia per la vita famigliare del poliziotto. Per questo motivo ha deciso di porre fine alla sua felicità in modo drammatico. Questo gesto, però, ha anche lo scopo di punire se stesso attraverso l’ira dell’uomo. Un sentimento che pervade Mills fino ad accecarlo e a fargli perdere qualsiasi lucidità. Bisognoso di vendicare la morte della moglie, infatti, uccide John Doe e, allo stesso tempo, condanna se stesso alla perdizione.