Se c’è un elemento cui Nanni Moretti è ormai abituato è il sostegno quasi cieco e assoluto della critica francese. Il regista, soprattutto nella seconda parte della sua carriera, ha ottenuto il plauso di riviste storiche e particolarmente orientate verso la politica degli autori come i Cahiers du Cinema. Per questo motivo, l’accoglienza tiepida proprio da parte dei francesi dopo la proiezione al Festival di Cannes di Tre piani ha lasciato stupiti.
O, meglio, ha azionato un campanello d’allarme. In effetti il film, presentato nel 2021, sembra discostarsi completamente dal percorso narrativo seguito fino a questo momento da Moretti. Come se non bastasse, poi, anche la regia sceglie una direzione opposta al passato, completamente avulsa da qualsiasi coinvolgimento personale o analisi sociale.
Un effetto che, probabilmente, si deve alla scelta di lavorare, per la prima volta, su di un’opera non originale, gestendo tutto il racconto in modo corale. Il cast, infatti, è formato da Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Elena Lietti, Denise Tantucci, Alessandro Sperduti, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno e Stefano Dionisi.
A loro si unisce lo stesso Moretti nei panni di un giudice in crisi per dover consegnare il proprio figlio alla giustizia dopo aver causato un incidente stradale. I diversi protagonisti, però, si muovono attraverso tre diverse vicende che, almeno nell’intenzione del libro dell’israeliano Eskhol Nevo, dovrebbero andare a comporre un corpo unico. Questo vuol dire che, nonostante i diversi epiloghi, la vicenda ne dovrebbe comprendere uno globale che proviamo a spiegare attraverso la spiegazione del finale di Tre piani.
Personaggi in cerca di libertà
Tutta la storia è ambientata all’interno di una palazzina di tre piani. Qui abitano diversi nuclei famigliari, le cui vicende vengono raccontate in tre atti attraverso due salti temporali di cinque anni ciascuno. Al primo piano di questo condominio borghese vivono Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietta). La coppia ha una bambina piccola, Francesca, che sono soliti affidare a Giovanna e Renato, due anziani dirimpettai. I problemi nascono quando, dopo essersi persi con la piccola a causa della demenza senile dell’uomo, Lucio inizia ad avere dei dubbi su eventuali molestie ai danni della figlia.
Al secondo piano, invece, vive Monica, interpretata da Alba Rohrwacher. È una giovane mamma spaventata dal suo ruolo e annoiata dalla solitudine che la circonda. Il marito, infatti, è spesso via per lavoro. Lasciata costantemente a se stessa, inizia a perdere contatto con la realtà. Fino a quando decide di abbandonare tutto per riacquistare una vita che, forse, non le è mai veramente appartenuta.
Il terzo piano, per finire, è abitato da una coppia di giudici, Vittorio e Dora. Interpretati dallo stesso Nanni Moretti e da Margherita Buy, vivono il dramma di una scelta etica ed affettiva nel momento stesso in cui il figlio ventenne chiede loro aiuto per ottenere una pena più lieve. Tutti loro, dunque, sono accomunati da vite che li pongono di fronte ai propri limiti, esasperandoli e facendoli diventare una causa per soccombere definitivamente o sopravvivere. La scelta, ovviamente, è solo e sempre personale.
Dal libro al film
Il rapporto tra la pagina scritta e l’immagine non è certo una novità. Esattamente come non lo è quello sempre strettissimo tra letteratura e cinematografia. Per questo non dovrebbe stupire la scelta di Moretti di portare sul grande schermo Tre piani, il romanzo dell’israeliano Eskhol Nevo.
A causare più di un’alzata di sopracciglio tra i “morettiani”, però, è stata proprio la volontà, per la prima volta, di rifarsi a una storia non originale. Una direzione potenzialmente pericolosa per un regista abituato a mettere del suo in ogni film, mostrando il proprio punto di osservazione e, in modo particolare, veicolando la narrazione attraverso una particolare ironia dal retrogusto caustico.
Come, dunque, un autore così fortemente riconoscibile e dalla personalità spiccata può agevolmente dare spazio a quella di un altro senza cadere in una sorta di estraneazione e invisibilità? Ovviamente si tratta di un confronto che Moretti non è riuscito a sostenere fino in fondo nel migliore dei modi. Per non essere fagocitato da Nevo, infatti, ha scelto di spogliare la vicenda di alcuni particolari essenziali che la definiscono nel profondo. La grandezza del romanzo omonimo, infatti, risiede nella capacità di raccontare la paura, la paranoia e il dolore come una sorta di caccia al tesoro.
Questo vuol dire che, nel corso della lettura, l’autore dissemina informazioni parziali, indizi e contribuisce a generare quel sano dubbio in grado di mantenere viva l’attenzione. Allo stesso tempo, poi, Nevo utilizza il mondo che gravita al di fuori del palazzo dove ambienta le sue vicende in modo attivo. La città di Tel Aviv, infatti, è parte integrante di un insieme che appare frammentario solo a un primo sguardo. In realtà ogni elemento, umano, architettonico e sociale, svolge una funzione unitaria andando a comporre il ritratto di una generazione e di un gruppo sociale ben preciso.
Tre finali
Trattandosi, dunque, di una vicenda corale ma, allo stesso tempo, raccontata sempre da un punto di vista fortemente individuale, è inevitabile che sia presente più di un finale. Nello specifico tre, come le storie portate sullo schermo. Nel primo caso Lucio, dopo aver accusato ingiustamente l’anziano Renato di una colpa non commessa, diventa lui stesso vittima di preconcetto. A consumare una sorta di vendetta è Charlotte.
La nipote minorenne di Giovanna che, in poco tempo, riesce a sedurre l’uomo facendo pendere su di lui il sospetto di averla molestata. In questo modo, dunque, la vita pone Lucio nella condizione di provare in prima persona la vergogna e la rabbia per un’accusa ingiusta. La stessa condizione che, anche se in modo del tutto privato, aveva imposto al povero ed inconsapevole Renato. Il processo a suo carico si conclude con un’assoluzione ma il sospetto continua a perseguitarlo fino a quando non sarà la stessa Francesca a raccontare tutto anni dopo.
Il secondo finale, invece, parla della disperazione di una donna abbandonata a se stessa di fronte all’incapacità di far fronte a una serie di responsabilità e ruoli che altri le hanno imposto. Una vicenda che, oggi più che mai, acquista importanza e contemporaneità. Per questo motivo il tormento di Monica di fronte alla sua inadeguatezza di madre deve essere osservato con molta attenzione e, possibilmente, senza preconcetti.
Dopo la nascita del suo secondo figlio, infatti, decide di lasciare tutto dietro di sé per riacquistare quella vita che realmente le appartiene. O, forse, per seguire una follia che le ha ottenebrato la mente. Ovviamente non è dato sapere quale delle due opzioni sia la più probabile. Chiare, invece, sono le cause che l’hanno condotta alla fuga. Motivi come la solitudine e l’invisibilità affettiva e personale che troppo spesso investe il mondo femminile.
Chiudiamo con la vicenda di Dora e Vittorio. La donna, dopo aver seguito il marito nella decisione di sottoporre il figlio ad un giudizio esemplare, sente di aver commesso un errore dal punto di vista personale. Così, dopo la morte del marito, decide di tornare sui suoi passi. Sono trascorsi molti anni, Andrea ha interrotto qualsiasi relazione con i suoi genitori ma non tutto è perduto. Finalmente libera da tutte le norme e le regole imposte dal marito Vittorio, Dora riesce a trovare una via per dare spazio alla propria voce. Il primo passo, ovviamente, è riavvicinarsi al figlio e alla vita che, nonostante tutto, è riuscito a costruire.
Tutti questi epiloghi, dunque, compongono un finale unico in cui la disperazione, il giudizio e la necessità di trovare uno spazio proprio sono gli elementi essenziali. Al centro, infatti, c’è un’umanità in affanno che vive ripiegata su se stessa nell’affannoso tentativo di mettere a tacere la propria infelicità. Però, come spesso accade, quando tutto sembra crollare, si aprono dei varchi insperati verso il futuro.
Nella sua trasposizione cinematografica, invece, Moretti preferisce mantenere una struttura in tre atti. Questa, spogliata di tutte queste sfumature, mostra la sua rigidità e l’assenza di un racconto universale. In sostanza, ognuna delle tre vicende narrate sembra avere una vita propria che in nessun modo si riflette su quella degli altri.