Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso in un agguato di mafia il 3 settembre del 1982, alle 21.15, in via Isidoro Carini a Palermo, mentre si stava andando a cena fuori a Mondello. La sua auto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata da una BMW guidata da Calogero Ganci, affiancato da Nino Madonia. Fu Madonia a sparare 30 colpi di kalashnikov a Dalla Chiesa e Setti Carraro, che morirono sul colpo. Su una seconda vettura, viaggiavano Francesco Paolo Anzelmo e Giuseppe Giacomo Gambin, incaricati di intervenire nel caso l’agente di scorta del Generale reagisse all’aguato.
Proprio nello stesso momento in cui fu ucciso Dalla Chiesa, la macchina che lo seguiva, quella dell’agente di scorta Domenico Russo, fu affiancata da una motocicletta, guidata da Giuseppe Greco. Anche l’agente fu ferito gravemente a colpi di kalashnikov e morì dopo dodici giorni, ricoverato nell’ospedale di Palermo. Greco fu incaricato anche di controllare l’esito dell’agguato, alla fine della sparatoria. La sentenza ordinaria del maxiprocesso del 1985 definì l’omicidio di Dalla Chiesa “il delitto più grave della storia della Repubblica italiana dopo quello di Aldo Moro.”
Dopo l’omicidio di Dalla Chiesa, Setti Carraro e di Russo, a Via Carini apparve un cartello, rimasto celebre, sul quale qualcuno scrisse: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”
Rita Dalla Chiesa ha raccontato più volte che probabilmente, grazie ad un suo “no”, riuscì a salvare anche sua figlia Giulia dall’attentato di Via Carini. Suo padre le aveva chiesto infatti di far stare Giulia per qualche giorno da loro a Palermo, e Rita rifiutò, d’istinto. “No, papà. A Palermo no. Risposi no, dalla pancia. Non sapevo, ora so perché. Io credo all’istinto di una madre. Altrimenti quella sera ci sarebbe stata anche Giulia nella A 112”
“Al funerale di mio padre era pieno di politici, ma non c’era Giulio Andreotti” – ha raccontato Rita Dalla Chiesa nel programma la Confessione – “Ho maturato la convinzione si sia trattato di un omicidio politico, perché ho visto la solitudine nella quale avevano lasciato mio padre. Perché nei diari di mio padre, che poi Falcone mi fece leggere, e ne parlai anche con Rocco Chinnici, c’era scritto di un colloquio che mio padre aveva avuto con Andreotti. E Andreotti gli disse: ‘Attenzione perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia, poi torna con i piedi dalla porta’, ecco, questo era il significato”
Come Rita, anche un altro dei figli di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Nando, è dello stesso avviso: “Penso che sia stato un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Né a me né ad altri della mia famiglia interessa sapere chi sono stati i killer, se venuti da Catania o da Bagheria o da New York. Interessa che siano individuati e puniti i mandanti che, a mio avviso, vanno ricercati e puniti nella Democrazia Cristiana siciliana”
“Di una sola cosa mi pento: di aver creduto che non sarebbe stato ucciso.” – ha detto Nando Dalla Chiesa – “A fine agosto, quando ci lasciammo per l’ultima volta, pensai: “Si sono talmente esposti, non possono farlo”. Ero certo. Non avevo capito che in Italia i delitti si possono firmare e la gente non voglia leggerne la firma. È stata la lezione più grande. Mi angoscia ancora il fatto che nell’interpretazione del delitto continuino a venir fuori improbabili ricostruzioni legate alle carte di Moro, con cui si cerca di spiegare rovistando nei cassetti ciò che invece è chiarissimo. Come nel Piccolo Principe: l’essenziale è invisibile agli occhi. È successa una cosa enorme, uno scontro tra un partito, il sistema di potere che gli ruota intorno e questo prefetto che arriva come un’eresia in Sicilia, così come lo erano stati Mattarella, La Torre, Chinnici e con la forza del suo prestigio, ripresenta la loro denuncia. Eppure, si cerca altro. Mi è pesato vedere un giornalismo e dei magistrati così inadeguati”
Carlo Alberto Dalla Chiesa rimarrà un eroe italiano per quanto fatto nel corso del tempo per combattere il terrorismo e cercare di fermare la Mafia.