Era da tempo che il genere fantasy non teneva così tanto banco tra gli appassionati e gli spettatori televisivi come sta accadendo nelle ultime settimane per House of the Dragon e Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere. Il primo, serie prequel del fenomeno Il Trono di Spade, è la trasposizione fedele di Fuoco e sangue di George R.R. Martin; il secondo, ispirato al Legendarium e agli innumerevoli scritti di J.R.R. Tolkien, sceglie invece la strada della ricostruzione di un mito e di una geografia ben precisa a discapito di una narrazione perlopiù fantasiosa e lontana dal canone istituito dallo scrittore britannico.
Una scelta, quella degli showrunner Patrick McKay e J.D. Payne per la serie Amazon, che sta dividendo sia gli appassionati e puristi dell’opera tolkieniana che gli spettatori più casuali e meno smaliziati. A trionfare parzialmente in questa guerra delle preferenze pare al momento House of the Dragon; in quest’ultimo caso, George R.R. Martin e Ryan Condal (i due showrunner della serie HBO) hanno deciso di giocare però su un terreno meno irto di pericoli, ovvero quello della massima fedeltà alla fonte letteraria. Due approcci all’adattamento dalle pagine al piccolo schermo completamente agli antipodi.
La casata dei draghi: una lettera d’amore a George R.R. Martin
Facciamo un piccolo passo indietro nel tempo. Siamo nel 2019 e su HBO debutta l’ottava e ultima stagione de Il Trono di Spade, epica conclusione della serie fantasy dei record, tra i fenomeni più compiuti ed irripetibili nella storia della tv recente. Nonostante la totale assenza di materiale letterario pubblicato da Martin riguardo il gran finale, i due showrunner del tempo David Benioff e D.B. Weiss decidono di continuare a far muovere la ruota della redditizia produzione e terminano le epiche vicende di Jon Snow e Daenerys Targaryen con una stagione finale breve, frettolosa, dai tempi fortemente contratti e dal character development approssimativo. Una delusione generale che serpeggia ancora oggi tra le file dei più grandi appassionati dell’universo narrativo di Martin e che ha decretato l’infausto “salto dello squalo” della serie a qualche episodio dalla sua conclusione definitiva.
Un errore grossolano che nel periodo successivo ha portato HBO a ponderare un eventuale prequel de Il Trono di Spade con grande cautela e, preferibilmente, con alle redini due nuovi showrunner. Ci hanno provato con il progetto deceduto dal titolo Bloodmoon, poi è arrivata la cronistoria della dinastia Targaryen con la pubblicazione del voluminoso tomo Fuoco e sangue; la ricetta per un nuovo successo era finalmente a portata di mano, ma come evitare di cadere nuovamente nel fatale errore dell’illustre predecessore?
Una questione di troppa riverenza?
La risposta sta nel coinvolgimento a tutto campo dello stesso scrittore americano nella produzione di House of the Dragon, e si vede. Estromesso dalla fase creativa a partire dalla quinta stagione di Game of Thrones, Martin e la sua mano permeano tutta la struttura narrativa dello show prequel; del resto, il parziale successo di pubblico e critica di House of the Dragon sta proprio nella granitica scelta di HBO di attenersi religiosamente alle pagine della cronistoria dell’autore senza repentini sobbalzi di libertà creativa. Nonostante le relazioni e le psicologie dei personaggi siano comodamente e intelligentemente adattate alla struttura episodica del prodotto audiovisivo, House of the Dragon si approccia all’idea di trasposizione con fin troppa riverenza alla fonte letteraria, quasi per timore di voler commettere gli stessi peccati mortali di Benioff e Weiss.
L’attinenza alle pagine di Fuoco e sangue di Martin, che pure non è romanzo canonico bensì resoconto spesso non troppo dettagliato della storia dei Targaryen, è sintomatico di un’idea di adattamento premuroso ed efficace che manca però di quella sana dose di coraggio e libertà espressiva che caratterizza invece il ben più controverso Gli Anelli del Potere. Condal e Martin scelgono dunque la strada meno battuta per accaparrarsi la rinnovata fidelizzazione di una audience che bramava il ritorno in pompa magna delle trame di potere che anni prima avevano fatto la gioia dei fan più accaniti de Il Trono di Spade.
Gli Anelli del Potere: (ri)costruzione di una mitologia
Una spinta antipodica che invece rende originale e irripetibile l’ambizione di Patrick McKay e J.D. Payne quando sono saltati in sella alla produzione Amazon per portare sul piccolo schermo la Terra di Mezzo di Tolkien. Dopo la straordinaria operazione cinematografica di Peter Jackson con le trilogie de Il Signore degli Anelli e de Lo Hobbit, il Legendarium delle storie pubblicate dal Professore britannico sembrava ormai saturo, perlomeno sul grande schermo. Una sfida quindi che soltanto il mezzo televisivo poteva assumersi come fardello, attingendo a mani piene da alcuni resoconti scritti dallo stesso Tolkien riguardanti la Seconda Era della Terra di Mezzo. Poco il materiale letterario da cui prendere ispirazione, da appunti e cronistorie pubblicate nelle Appendici de Il Signore degli Anelli, alle leggende narrate ne Il Silmarillion e nei Racconti Incompiuti.
Eppure, il costosissimo show prequel di Amazon sta regalando uno spettacolo visivo senza precedenti per il piccolo schermo, spingendo la fantasia e l’ambizione della serie ben oltre le parole pubblicate da J.R.R. Tolkien. Per questo motivo Gli Anelli del Potere gioca in maniera esattamente antitetica al suo contender House of the Dragon: più che celebrare il “canone” tolkieniano di personaggi, eventi e luoghi con fervore religioso e fedeltà alla fonte, si prende il colossale rischio di (ri)costruire la mitologia della Terra di Mezzo mettendo in scena un appassionante racconto fiction che poco ha a che vedere con gli scritti di Tolkien ed abbracciando un potenziale bacino di utenti che vuole invece di riflettere e decostruire l’opus magnum del Professore nel senso più post-moderno del termine.
Dov’è finito Tolkien?
Per questa ragione molti dei più puristi e smaliziati si sono immediatamente protesi contro le ragioni produttive e ambiziose della serie Amazon, al grido unanime di “Dov’è finito Tolkien?” Un quesito che non si è spento con l’incedere spedito dei nuovi episodi de Gli Anelli del Potere, sempre più determinato a leggere la mitologia dello scrittore inglese tramite un vero e proprio atto di ri-fondazione: Payne e McKay non sono di certo degli sprovveduti nei confronti dell’opera di Tolkien, eppure scelgono la strada meno battuta sprigionando sul piccolo schermo una costellazione fascinosa ed evocativa di omaggi all’universo narrativo della Terra di Mezzo più che un adattamento rigoroso. Il gradimento generale di pubblico però, sembra non voler decollare proprio a causa di queste libertà palesi.
Un atteggiamento, quello de Gli Anelli del Potere, che è esattamente agli antipodi del percorso di sottrazione operato da Condal e Martin per House of the Dragon. Nello spietato gioco delle preferenze degli spettatori ne sta beneficiando il secondo, forse perché così fedele alle parole dell’autore che lo spazio di manovra per i picconatori è ridotto al minimo; un peccato mortale che sacrifica l’inventiva e il coraggio espressivo del prequel de Il Signore degli Anelli, che invece affronta a viso aperto e con intelligenza e caparbietà potenziali estimatori e un esercito agguerrito di detrattori che non molleranno l’osso tanto facilmente.