Nelle ultime settimane, grazie a ben due serie Netflix, si parla molto del personaggio di Jeffrey Dahmer, il serial killer di Milwaukee che dal 1978 al 1991 uccise, in modo davvero violento, diciassette ragazzi di età fra i 14 e i 31 anni. Nell’articolo che segue, proveremo a tracciare un profilo psicologico dell’assassino, con un’analisi sulle dinamiche relazionali e familiari che lo portarono ad uccidere e mangiare le proprie vittime.
Dahmer cresce come un ragazzo taciturno, distaccato dai genitori che non si occupano di lui e sviluppa così una sorta di autoregolazione, ovvero trovando soddisfacimento dei suoi bisogni in modo del tutto autonomo. Utilizzando l’aiuto inconsapevole del padre chimico, comincia a capire come far sparire i resti delle sue prima vittime, sia animali che umani. Scopre di essere gay in adolescenza ma vive questa presa di coscienza come qualcosa di sbagliato e da tenere nascosto.
Il nostro serial killer, come vittime, sceglie sempre ragazzi o giovani uomini che possano essere uno “specchio” per lui: Jeffrey si rivede nelle vittime e attraverso lo strangolamento, fa la fantasia di impossessarsi del loro vivere serenamente la loro omosessualità.
Ma non finisce qui. Dahmer non si limitava a strangolare, ma mangiava le sue vittime. Tramite la cavità orale, il serial killer fa la fantasia di assorbire fisicamente i “nutrienti” (veri o presunti) delle vittime: non a caso, mangia Konerak Sinthasomphone, ovvero una delle vittime che era riuscita a scappare e che, poliziotti poco svegli, gli avevano riportato a casa. Una volta mangiato, Sinthasomphone non sarebbe più andato da nessuna parte, ma sarebbe diventato per sempre parte di lui. Questo ad esempio, è un tratto in comune con un personaggio cinematografico che tutti conosciamo: Hannibal Lecter.
Il vero e intimo rapporto con questi ragazzi avviene solo dopo la loro morte: il controllo dell’altro per il proprio piacere personale, è estremo in Jeffrey. Il contatto affettivo, mai avuto con il padre, lo costringe a bloccare le vittime, uccidendole, e a quel punto, liberare la sua libido masturbandosi suoi loro cadaveri. Jeffrey Dahmer soffre anche di problemi di alcolismo: queste dipendenze sono collegate ad una distanza della madre nel rapporto con il figlio.
L’Altro non è una risorsa, con relazioni e qualità, ma soltanto uno strumento atto a permettere il contenimento della rabbia e tutto quello che non piace a Jeffrey, come un personaggio da inventare e usare a proprio piacimento. E come una rivalsa su dei genitori (ed un ambiente ostile) che non lo hanno mai davvero amato.
(Francesco Marzano è psicologo, psicoterapeuta e psicodrammatista, si occupa di rapporti tra psicologia e cinema e dell’impatto sugli spettatori.)