La serie: Copenhagen Cowboy, 2022. Creata da: Nicolas Winding Refn. Cast: Angela Bundalovic, Lola Corfixen, Zlatko Buric, Andreas Lykke Jørgensen, Jason Hendil-Forssell, Li Ii Zhang, Dragana Milutinovic.
Genere: neo-noir, crime. Durata: 50 minuti/6 episodi. Dove l’abbiamo vista: in anteprima mondiale alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia, in lingua originale.
Trama: Miu giunge nei bassifondi di Copenhagen come servitrice di una potente famiglia criminale di origini albanesi. La giovane ha fama di essere un autentico talismano soprannaturale, e l’anziana padrona di casa spera di sfruttarne i talenti a proprio beneficio per propiziare una nascita miracolosa. Ben presto, tuttavia, la giovane si ribellerà a quel mondo di violenza e oscenità, e intraprenderà una sanguinosa crociata solitaria per ottenere giustizia e vendetta, fino a oltrepassare i confini del mondo terreno…
A tre anni dal lancio della miniserie Amazon Too Old to Die Young, il visionario regista danese Nicolas Winding Refn torna a confrontarsi con il mondo della televisione, realizzando per Netflix la serie tv Copenhagen Cowboy.
Come anticipato nelle scorse settimane, l’autore di Solo Dio Perdona, Valhalla Rising e The Neon Demon aveva annunciato un ritorno alle origini, con un drastico allontanamento da Hollywood e la scelta di dare vita a una produzione interamente danese. Il risultato è un’opera fortemente sperimentale che, ancor più della già originalissima Too Old to Die Young, esplora la terra di frontiera tra film e serie televisiva, nel tentativo di cogliere il meglio di entrambi i linguaggi. In attesa del lancio della serie, prevista per dicembre 2022, ecco in anteprima la nostra recensione di Copenhagen Cowboy.
La trama: un’odissea noir nei bassifondi di Copenhagen
Più che una ragazza come tutte le altre, Miu è considerata da tutti un autentico talismano soprannaturale, capace di portare buona sorte e persino di propiziare miracoli a favore di tutti coloro che le stanno intorno. Queste doti straordinarie, tuttavia, l’hanno trasformata fin dalla più tenera infanzia in un oggetto, una merce di scambio al servizio del migliore offerente.
È in questa veste che la giovane giunge nei degradati bassifondi di Copenhagen, dove l’anziana e superstiziosa sorella di un boss criminale albanese sogna di concepire un figlio miracoloso. Miu si ritrova ben presto intrappolata in un abisso di degrado e violenza, dove le ragazze vengono imprigionate come schiave, costrette a prostituirsi e sottoposte agli abusi del marito della donna, un essere umano che si esprime mediante grotteschi versi suini.
Miu passa all’azione, e scatena una violenta rivolta contro i suoi carcerieri: è l’inizio di una sanguinosa odissea per le strade della capitale danese, che dopo molte peripezie la porterà a lavorare a fianco del criminale Danny con l’obiettivo di riscattare la figlia della sua nuova padrona di casa dalla morsa del temibile boss cinese Chieng.
Le imprese di Miu la porteranno però in rotta di collisione con una perversa famiglia dell’antica aristocrazia danese, il cui sadico rampollo, Nicklas, finirà per scontrarsi con la protagonista un duello all’ultimo sangue. La resa dei conti tra i due avrà conseguenze inattese, e innescherà una spirale di eventi destinati a culminare nel risveglio soprannaturale della malefica Rakel, una forza femminile oscura e distruttrice che incarna la nemesi perfetta di Miu.
Di fronte a mille minacce e pericoli, la giovane protagonista finisce per trasformarsi in una vera e propria eroina e ridestare il suo potere latente, che la porta a trascendere i confini stessi del mondo terreno.
La regia di Refn, poesia visiva a tinte fluorescenti
Che Netflix avesse lasciato piena libertà creativa all’estro creativo e visionario dell’autore di The Neon Demon era cosa ampiamente risaputa, ma Copenhagen Cowboy riesce comunque ad andare ben al di là delle più audaci aspettative. Nel corso delle sei puntate della serie tv, la regia di Nicolas Winding Refn gioca sapientemente con le immagini, la fotografia e la saturazione delle tonalità cromatiche, dando vita a un autentico capolavoro neo-noir a tinte fluorescenti, capace di essere ancor più poetico e spregiudicato delle sue opere precedenti. Attraverso la macchina da presa di Refn, i bassifondi di Copenhagen finiscono così per trasformarsi in un non-luogo metafisico e surreale, che strizza parzialmente l’occhio all’estetica del filone cyberpunk.
Non si tratta, però, di pura forma, o della semplice costruzione di un’atmosfera fine a se stessa: in Copenhagen Cowboy, il potere dell’immagine innerva e trasfigura la narrazione, riuscendo a sublimare una cupa e violenta storia di crimine e vendetta, e a trasformarla in un viaggio spirituale ed esoterico oltre i confini della realtà terrena. Con le sue scelte registiche, Refn riesce a rappresentare visivamente la trasformazione alchemica dell’anima della protagonista, che passa dal piombo all’oro, o – per utilizzare la stessa metafora della serie – dalla stalla dei porci che apre il racconto al tripudio di luci ultraterrene della sequenza finale. In questa prospettiva, Refn si conferma erede del grande Alejandro Jodorowsky, altro geniale regista “esoterico” capace di esprimere l’ineffabile attraverso la pura immagine.
Ancor più di The Neon Demon e Too Old to Die Young, la nuova serie di Refn è insomma un’autentica estasi sensoriale, che ci guida in un viaggio psichedelico e allucinatorio nelle profondità dell’anima umana. A completare la poesia visiva di Refn, peraltro, contribuisce anche la suggestiva colonna sonora realizzata dal compositore Cliff Martinez, che contribuisce a ipnotizzare lo spettatore con un inedito mix di musica elettronica e tonalità eteree.
Un cast memorabile, anche senza ricorrere a Hollywood
La scommessa più rischiosa, per Copenhagen Cowboy, consisteva nella scelta di fare affidamento a un cast quasi tutto di nazionalità danese e completamente sconosciuto al grande pubblico, chiamato a raccogliere il pesante testimone delle molte star di Hollywood con cui Refn aveva lavorato nelle sue ultime opere, come Ryan Gosling, Miles Teller, Elle Fanning, Keanu Reeves e Mads Mikkelsen.
Il compito più gravoso poggiava indubbiamente sulle esili spalle di Angela Bundalovic, chiamata a vestire gli scomodi panni di un’eroina vendicatrice con una tuta monocromatica che non può non evocare anche sul piano visivo la celebre Sposa del tarantiniano Kill Bill. Eppure, contro ogni pronostico, Miu si dimostra fin da subito un personaggio convincente e memorabile, con un’interprete sorprendentemente a proprio agio nei panni dell’angelo della morte refniano. A sorpresa, Angela Bundalovic esce vincitrice da ogni confronto, regalandoci una prova attoriale genuina e convincente, che condensa alla perfezione tutto l’immaginario dell’autore danese, dalla purezza incontaminata della fanciulla senza macchia alla radicale inflessibilità del ronin vendicatore.
Altrettanto iconiche sono le performance di Andreas Lykke Jørgensen, interprete del perverso e vampirico Nicklas, e di Lola Corfixen, figlia di Nicolas Winding Refn, al suo debutto nel mondo della recitazione nei panni della malefica antagonista Rakel.
Più in generale, l’intero cast riesce a dar vita a una galleria di personaggi sorprendenti e indimenticabili, che lasciano immediatamente il segno nello spettatore grazie anche a una sceneggiatura d’autore, solida e incisiva. Tra i comprimari, la menzione d’onore va sicuramente all’eccellente Zlatko Buric, che torna a collaborare con Refn dopo aver vestito i panni del boss criminale Milo nella trilogia di Pusher.
Una foresta di archetipi: la mitologia secondo Refn
Spostandoci oltre la loro superba cornice estetica, le avventure di Miu ripropongono numerosi temi particolarmente cari alla produzione artistica e narrativa di Refn, ricombinandoli in una veste completamente inedita. Con Copenhagen Cowboy, l’autore guarda indietro ai molti simboli e temi che hanno affollato il suo fervido immaginario cinematografico nel corso degli anni passati, e li ricombina in un disegno unitario, con l’esplicito intento di dare vita a una vera e propria mitologia contemporanea.
Quella delineata nel corso dei sei episodi della serie è un’autentica foresta di simboli e archetipi, che attingono variamente al patrimonio culturale della tradizione classica, orientale e giudaico-cristiana per dare vita un racconto che riesce a essere al contempo originale, innovativo e profondamente familiare.
Come in un mazzo di tarocchi, nella serie compaiono tutti i simboli cari alla poetica di Refn: c’è la fanciulla immacolata, che custodisce in sé il seme di una purezza e un candore di origine divina, c’è l’angelo vendicatore dell’Antico Testamento, che amministra una giustizia implacabile e sanguinaria, c’è un giovane morbosamente attratto dalla figura materna a causa del complesso di Edipo, ci sono i demoniaci carcerieri, che brutalizzano e opprimono la bellezza tenendola imprigionata in un abisso di terrena degradazione, e c’è anche la resa dei conti – già vista al termine di Too Old to Die Young – tra i due volti contrapposti del femminino sacro, ossia la dea delle Tenebre e la campionessa della Luce, mitologicamente incarnate da Eva e Lilith, ma anche Artemide e Ecate.
Insomma, pur trattandosi a tutti gli effetti di un cupo e realistico thriller ambientato nel sottobosco criminale della Copenhaghen contemporanea, la serie di Refn è anche molto altro, e riesce a trasformarsi un autentico mito contemporaneo, che può essere declinato tanto sotto forma di un film unitario in più atti, quanto in veste di miniserie.
Dall’inferno al paradiso, il viaggio dantesco di un’eroina
L’impatto con la prima puntata è forte e traumatico: Copenhagen Cowboy esordisce facendoci precipitare fin da subito in un mondo cupo e degradato, dove la brutalità è all’ordine del giorno e le donne vengono mercificate e vendute all’asta. Ogni cosa è sporca, grottesca e ripugnante, e la corruzione sembra quasi assumere forma fisica: il suo simbolo più evidente è rappresentato dalla surreale figura di Sven, il grasso e taciturno marito dell’anziana padrona di Miu, che si esprime soltanto tramite versi suini. Inerte e sottomesso alla cieca crudeltà della moglie e del cognato, l’uomo sfoga le proprie frustrazioni sulle povere prigioniere del bordello, in un ciclo di violenza e sopraffazione senza fine.
Con il prosieguo della narrazione, però, lo scenario muta drasticamente: ben presto, Miu porrà fine a quel regno infernale con un incendio purificatore, e si trasferirà nella tenuta di una donna cinese, la cui figlia è stata fatta prigioniera dal temibile e austero boss mafioso Chieng.
L’universo narrativo si amplia, nuove fazioni e nuovi personaggi fanno la loro comparsa, e la crociata di Miu si trasforma in un cammino alla ricerca di riscatto ed espiazione, al termine del quale potrà finalmente restituire alla sua padrona di casa la figlia prigioniera e, così facendo, ripagare il debito morale della sua ospitalità. Dal girone infernale governato dal demoniaco clan degli albanesi, il racconto si trasferisce insomma in una sorta di vero e proprio purgatorio notturno, dove Miu vaga e corre senza sosta nel tentativo di raggiungere il riscatto e la pace. Come già detto, anche il paesaggio cambia forma insieme al racconto: ai cupi interni degradati dei primi episodi, si sostituiscono ora le vie semideserte di una città spettrale, sconfinata e illuminata da fredde luci artificiali.
Nell’ultimo atto, infine, la protagonista trascende i limiti della realtà, e approda oltre i confini del mondo fisico: dopo un’apoteosi all’insegna delle luci neon, Miu si ritrova nella natura incontaminata, libera delle sinistre ombre dei palazzi di Copenhagen, e finisce per assumere la guida di un gruppo di donne identiche a lei: fiere, indomite e orgogliose. Un paradiso tutto femminile, nel quale si consumerà l’apocalittica resa dei conti con un’altra forza primordiale, incarnata dalla glaciale e seducente Rakel.
Il viaggio di Miu, in definitiva, oltre a ricalcare quasi alla lettera le varie tappe e archetipi del viaggio dell’eroe mitologico descritto da Joseph Campbell, sembra strizzare l’occhio anche a quello di Dante, come sembra confermarci anche il progressivo mutare del registro narrativo, che passa gradualmente dal grottesco al sublime. Refn, del resto, non è certo nuovo alle allusioni dantesche, su cui già poggiava l’intera narrazione di The Neon Demon, profondamente incardinata sull’allegoria delle tre fiere. Sotto molti punti di vista, la serie Copenhagen Cowboy non fa che riprendere e dare pieno sviluppo a questa suggestione, seppure sempre attraverso le lenti fantasmagoriche e fluorescenti del genere neo-noir.
La recensione in breve
A metà strada tra film e serie tv, Copenhagen Cowboy segna un vertice alto nell'immaginario neo-noir di Nicolas Winding Refn, e si dimostra capace di coniugare le sua estetica radicale e visionaria con la costruzione di un'autentica epopea mitologica moderna. Nel corso delle sue sei puntate, la serie riesce nell'impresa di rivisitare in chiave innovativa l'intera poetica del regista danese, proponendo una cupa storia di crimine e violenza che sfocia nella mistica e nel soprannaturale.
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