La serie: I tre giorni dopo la fine, 2019. Regia: Hideo Nakata e Masaki Nishiura. Genere: storico, drammatico. Cast: Kôji Yakusho, Kaoru Kobayashi, Yuriko Ishida. Durata: 50 minuti/8 episodi. Dove l’abbiamo visto: Netflix.
Trama: Chi li considera colpevoli, chi degli eroi. Le persone legate alla centrale di Fukushima affrontano una minaccia invisibile ma mortale: una catastrofe nucleare senza precedenti.
C’è un momento della nuova serie originale Netflix I tre giorni dopo la fine che fa sobbalzare noi spettatori. Non è la visione dello tsunami che travolge la centrale nucleare di Fukushima dopo il devastante terremoto del 2011. Nemmeno la lotta coraggiosa degli operai per riuscire a evitare la catastrofe. Sta nelle parole di Masao Yoshida, interpretato dal fresco vincitore del premio a Cannes Kôji Yakusho. Il direttore della centrare nucleare di Fukushima sostiene che quel piccolo atomo di Uranio che portò il Giappone alla rinascita dopo la Seconda Guerra Mondiale, di fatto lo ha travolto, portandolo sull’orlo della distruzione.
Come vedremo nella recensione di I tre giorni dopo la fine, grande e piccolo si intrecciano in continuazione per dar vita a un racconto emozionante e sincero di una tragedia ancora senza spiegazione, ancora da elaborare, ancora con gravi conseguenze da affrontare.
La trama: il giorno in cui tutto crollò
11 marzo 2011. Un terremoto di grado 9 sulla scala Richter colpisce la centrale nucleare di Fukushima, una delle più importanti del Giappone. La struttura viene devastata dallo tsunami successivo con onde di 14 metri che si sono abbattute sull’impianto, portandolo al collasso. E spegnendo i reattori. In pochi minuti i generatori d’emergenza vengono distrutti e di conseguenza è impossibile alimentare i sistemi di raffreddamento. Una volta liberato, il materiale radioattivo rende impossibile qualsiasi operazione di salvataggio. Nel mezzo del caos, la politica cerca di muoversi ma non sempre le soluzioni proposte sono quelle più giuste. Masao Yoshida, direttore della centrale, prova a coordinare il lavoro di tutti. Mentre la popolazione piange decine di morti.
Un horror vero
Siamo abituati a considerare il Giappone come una nazione all’avanguardia, dalla tradizione culturale millenaria, improntata al rispetto delle regole. Insomma, un simbolo di efficienza difficilmente eguagliabile. Eppure, nella riuscita serie di Netflix si mostra il lato più fragile di questa terra gentile e abnegata. Gli otto episodi che la formano, con la firma produttiva di Jun Masumoto, vivisezionano la tragedia di Fukushima, raccontandola da tre punti di vista: quella del direttore della centrale, degli addetti alle operazioni di salvataggio e della politica.
Il risultato è un racconto genuinamente doloroso che non lascia indifferenti. Non è un caso che alla regia troviamo Hideo Nakata (affiancato da Masaki Nishiura), padre della serie Ring, una saga che ha rivoluzionato il mondo dell’horror innestando il terrore vero in una narrazione spoglia. La sequenza dello tsunami in tal senso è una delle più belle e spaventose e la ricorderemo a lungo.
A un passo dalla fine
Ciò che colpisce di I tre giorni dopo la fine è l’indubbia capacità di portare avanti un racconto di grande respiro, senza alcuna concessione all’emotività spicciola. La paura emerge in maniera naturale, come dimostra il primo episodio. Forse il più bello per l’efficacia nel far emergere la fragilità umana nella sua totalità.
I protagonisti affrontano con dignità una morte atroce e incomprensibile. La tragedia, infatti, non era stata mai prevista né uno scenario del genere era mai stato preso in considerazione. Una nazione intera, dunque, si è trovata impotente. Come detto prima, quindi, il contrasto con l’immagine efficiente del Giappone suscita emozioni vere.
Le colpe di tutti, l’eroismo di tutti
Nella serie sono evidenti i limiti di azione dei capi della politica che non riescono a districarsi nel bel mezzo della crisi. E quasi rendono vano il sacrificio dei molti che, giorno dopo giorno hanno messo in pericolo la loro vita pur di restituire normalità a quella terra. Come quando decidono di non evacuare la popolazione (se non per un raggio ridicolo di 3 km). “Il genere di decisione per cui verremo criticati in futuro“, dirà poi uno dei responsabili.
Nella presentazione della serie il dualismo tra colpevoli ed eroi viene presentato come il leit motif centrale di I tre giorni dopo la fine. Indubbiamente si tratta di una chiave di lettura interessante, ma preferiamo focalizzarci su altro. Ovvero sulla grande dignità del protagonista la cui voce fuori campo fa da filo rosso agli episodi, Masao Yoshida. Lui si auto assegna il compito di raccontare la storia, di farla tramandare, proprio come farebbe un eroe shakespeariano. Parlare, mostrare per far sì che nessuno possa dimenticare. “Non posso ancora morire“, dice a un certo punto. Poiché il compito di raccontare quel disastro alle generazioni future è un imperativo categorico.
Yoshida è morto all’età di 58 anni per un tumore aggressivo causato, anche, dalle radiazioni di Fukushima. Le sue dichiarazioni sono state raccolte nel cosiddetto Yoshida Testimony. Una sorta di memoriale in cui è stato dato il giusto merito agli sforzi fatti durante i giorni più duri. Senza però sorvolare sugli errori fatti. Nella gestione di una crisi senza precedenti, le cui cause restano ancora sconosciute.
La recensione in breve
Asciutta, senza fronzoli, I tre giorni dopo la fine è una serie che merita di essere vista per la capacità di raccontare un disastro di proporzioni colossali con genuina empatia.
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Voto CinemaSerieTV