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Home » Serie TV » Recensioni serie TV » The Handmaid’s Tale 6, la recensione: il ritorno della distopia più necessaria di sempre

The Handmaid’s Tale 6, la recensione: il ritorno della distopia più necessaria di sempre

La recensione di The Handmaid’s Tale 6: una stagione potente e politica, tra nuovi tradimenti, vecchie ferite e la rabbia di chi non accetta compromessi con l’oppressione.
Carlotta DeianaDi Carlotta Deiana8 Aprile 2025
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Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
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La serie: The Handmaid’s Tale – Stagione 6, 2025. Creata da: Bruce Miller, basata sul romanzo di Margaret Atwood. Cast: Elisabeth Moss, Yvonne Strahovski, Bradley Whitford, O-T Fagbenle, Max Minghella, Samira Wiley, Ann Dowd. Genere: Dramma distopico, thriller politico, fantascienza. Durata: Circa 50 minuti/10 episodi. Dove l’abbiamo visto: Su Timvision.

Trama: Nella stagione conclusiva, The Handmaid’s Tale accompagna June Osborne e i ribelli di Mayday in una nuova fase della loro lotta contro Gilead. Tra vecchie alleanze, nuovi tradimenti e una riforma apparente chiamata New Bethlehem, la serie esplora il volto mutevole dell’oppressione e la difficoltà di trovare giustizia in un mondo costruito sul controllo. Il conflitto tra libertà personale e rivoluzione collettiva si fa più acceso che mai.

A chi è consigliato? A chi ha seguito la serie fin dall’inizio, ma anche a chi cerca una narrazione politica intensa, interpretazioni straordinarie e una riflessione profonda su potere, resistenza e perdono. Ideale per chi vuole capire meglio l’epoca che stiamo vivendo, attraverso una delle distopie più incisive della TV contemporanea.


Sin dalla sua prima messa in onda nel 2017, The Handmaid’s Tale ha avuto la straordinaria capacità di dialogare con l’attualità politica statunitense in modo diretto, provocatorio e quasi profetico. La sesta stagione debutta in un contesto ancora più cupo: un’America spaccata, attraversata da inquietanti derive autoritarie che rendono l’universo di Gilead più vicino, più possibile.

La serie non è mai stata una semplice distopia: è sempre stata un avvertimento, un’allerta narrativa che si nutre del presente. E nel 2025, questo presente fa paura. È in questo contesto che The Handmaid’s Tale torna con la sua ultima stagione, più urgente e politica che mai.

Sopravvivere o resistere?

Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid’s Tale 6 (fonte: Hulu)

I primi episodi riattivano immediatamente il motore narrativo con il tema che ha sempre attraversato la serie: il conflitto tra sopravvivenza personale e impegno collettivo. June, in fuga con la figlia più piccola, tenta di costruire una via di fuga verso la libertà, ma la sua storia personale è intrecciata in modo indissolubile a quella di un’intera nazione oppressa. L’incontro con Serena Joy, un tempo aguzzina, oggi ambigua alleata, rende evidente quanto il confine tra vittima e carnefice possa diventare labile nei regimi autoritari. In parallelo, la cattura di Luke e le tensioni all’interno del gruppo dei ribelli di Mayday mettono in discussione ogni certezza. La serie ripropone il dilemma fondante: è possibile combattere il potere senza diventare come il potere stesso?

Una Gilead riverniciata

Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid’s Tale 6 (fonte: Hulu)

Tra le novità più discusse della stagione c’è il progetto di New Bethlehem, un tentativo di riforma guidato dal comandante Lawrence. Meno divise, meno rituali, meno violenze istituzionalizzate: ma il cuore resta lo stesso. The Handmaid’s Tale 6 mostra con grande lucidità che l’oppressione non cambia semplicemente indossando una maschera più liberale. L’illusione di una Gilead più “umana” viene smascherata episodio dopo episodio. Le promesse di apertura servono solo a placare le coscienze degli oppressori, ma non restituiscono autonomia a chi l’ha persa. È una critica feroce, e attualissima, alla retorica della riforma senza giustizia.

Un ottimo cast

Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid’s Tale 6 (fonte: Hulu)

Se la scrittura politica di questa stagione è affilata, lo è altrettanto la direzione degli attori. Elisabeth Moss conferma di essere il cuore pulsante della serie, portando sullo schermo una June più determinata e feroce che mai, ma anche attraversata da momenti di vulnerabilità estrema. La sua interpretazione raggiunge nuovi picchi di intensità, anche grazie alla regia di diversi episodi affidata a lei stessa. Yvonne Strahovski ci regala una Serena Joy stratificata, affascinante e disturbante al tempo stesso: il suo percorso continua a essere uno dei più interessanti e contraddittori dell’intera serie. Ann Dowd, nei panni della zia Lydia, affronta forse per la prima volta il collasso totale del suo sistema di valori, mentre Samira Wiley e O-T Fagbenle vedono finalmente i loro personaggi, Moira e Luke, ricevere la profondità narrativa che meritavano da tempo.

Il perdono è possibile?

Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid’s Tale 6 (fonte: Hulu)

Uno dei nuclei tematici più forti della sesta stagione è quello del perdono. La serie solleva una domanda tanto complessa quanto attuale: è giusto — o anche solo possibile — perdonare chi ha permesso o facilitato la nascita di un regime disumano? June e Serena, simboli viventi di questa ambiguità morale, sono costrette a confrontarsi con il loro passato e con il loro presente in una danza dolorosa di alleanze temporanee, sospetti e rancori. Ma il tema si estende anche agli altri personaggi: cosa fare con chi, come Nick, ha contribuito al sistema ma ha poi cercato di opporvisi? E chi, come Lawrence, cerca di “ripulire” Gilead senza rinunciare al proprio potere? La serie non concede sconti e si rifiuta di adottare una visione semplicistica del concetto di redenzione.

Una delle sorprese più gradite della stagione è l’uso calibrato di un umorismo nero e di una regia più dinamica. Alcune battute, inaspettate ma perfettamente in tono, riescono a spezzare la tensione senza mai svilirla. È il segno di una serie che ha maturato consapevolezza dei propri mezzi espressivi e sa quando colpire duro e quando far respirare lo spettatore. La fotografia, il montaggio e le scelte musicali — tra cui alcuni momenti notevoli con brani iconici — arricchiscono ulteriormente un impianto estetico che, anche dopo sei stagioni, continua a essere tra i più riconoscibili della TV contemporanea.

Tra rabbia, ambiguità e necessità

Una scena di The Handmaid's Tale 6 (fonte: Hulu)
Una scena di The Handmaid’s Tale 6 (fonte: Hulu)

Pur con tutti i suoi limiti, The Handmaid’s Tale resta un’opera fondamentale. Questa sesta stagione non cerca la consolazione, né la catarsi facile. La sua rabbia è viva, la sua ambiguità morale è intatta, e la sua urgenza politica è più potente che mai. Ogni personaggio, anche quelli minori, riceve il giusto spazio per brillare, per cadere, per risorgere. È una serie che ha saputo rinnovarsi senza tradirsi, che ha accettato la complessità invece di fuggirla. La rivoluzione non è una linea retta, e The Handmaid’s Tale lo dimostra con forza. Anche senza mostrare l’esito finale, lascia intuire che il cambiamento è un processo lungo, faticoso, ma possibile.

La recensione in breve

7.0 Significativa

La sesta stagione di The Handmaid’s Tale conferma l’anima viscerale e politica della serie. Ambientata in un’America sempre più simile a Gilead, affronta con coraggio i dilemmi della resistenza, del perdono e dell’identità. Con interpretazioni straordinarie, una regia più fluida e una scrittura più affilata, questa stagione torna alle origini senza perdere profondità. Tuttavia, la serie continua a ignorare l’intersezionalità e a rappresentare una resistenza priva di memoria storica. Un finale di stagione senza risposte facili, ma carico di domande giuste.

Pro
  1. Interpretazioni magistrali, in particolare di Elisabeth Moss e Yvonne Strahovski
  2. Ritmo narrativo più coinvolgente rispetto alle ultime stagioni
  3. Temi politici attuali e ben trattati, in particolare sul falso riformismo
  4. Regia e fotografia d’impatto, con momenti di ironia che arricchiscono il tono
  5. Approfondimento efficace dei personaggi secondari
  6. Dialoghi affilati e sguardo lucido sul concetto di perdono
Contro
  1. Ripetitività in alcune dinamiche narrative (fughe, resistenze, scontri verbali ricorrenti)
  2. Dialoghi a tratti didascalici o forzati
  3. Visione semplificata della resistenza organizzata, poco radicata nella realtà storica
  4. Occasioni mancate nella costruzione di un’alternativa credibile a Gilead
  • Voto CinemaSerieTV.it 7.0
  • Voto utenti (0 voti) 0
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