La serie: The Kingdom Exodus, 2022. Creata da: Lars von Trier. Cast: Bodil Jørgensen, Mikael Persbrandt, Udo Kier, Willem Dafoe, Lars Mikkelsen, Alexander Skarsgård, Nicolas Bro, Tuva Novotny, Nikolaj Lie Kaas.
Genere: mistero, soprannaturale, medical drama, black comedy. Durata: 60 minuti/5 episodi. Dove l’abbiamo vista: in anteprima alla Mostra internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, in lingua originale.
Trama: Durante una notte buia e tempestosa, la sonnambula Karen raggiunge l’ospedale del Regno in cerca di risposte sulla serie incompiuta di Lars von Trier. Al suo arrivo, si imbatte in una misteriosa profezia: l’Esodo degli spiriti sta per arrivare, e con esso la resa finale dei conti tra le forze del bene e quelle del male. Nel frattempo, il medico svedese Helmer Jr. è stato appena assunto come vice primario, ma già inizia ad avvertire l’atteggiamento ostile e denigratorio dei suoi colleghi danesi e del primario Pontopidan.
A 25 anni dal sorprendente finale cliffhanger della seconda stagione di The Kingdom – Il Regno, il geniale e controverso Lars von Trier ci riporta nei misteriosi corridoi dell’Ospedale del Regno di Copenhagen per riannodare i tanti fili lasciati in sospeso dalla serie tv che, tra il 1994 e il 1997, aveva rappresentato uno dei suoi primi successi dietro la macchina da presa.
Nel 1998, lo sviluppo della terza stagione era stato bloccato dalla morte di tre interpreti-chiave della serie originale: Ernst-Hugo Järegård (ossia il rancoroso primario svedese Stig Helmer) Kirsten Rolffes, (l’anziana spiritista Sigrid Drusse) e Morten Rotne Leffers (il lavapiatti affetto dalla sindrome di down). Ora, tuttavia, von Trier ha scelto di tornare sui suoi passi, con l’intento di offrire una conclusione soddisfacente alla storia originaria e, al tempo stesso, dare vita a una miniserie accessibile anche a nuovi spettatori. Nasce così The Kingdom Exodus, con un’iniziativa per molti versi analoga a quella che, nel 2016, ha sancito il ritorno di un’altra serie tv all’insegna del mistero e del soprannaturale: Twin Peaks, considerata dallo stesso von Trier una delle maggiori fonti di ispirazione per la sua The Kingdom – Il Regno.
L’operazione presentava un enorme numero di sfide, ostacoli e difficoltà: per von Trier, tornare nell’Ospedale del Regno significava rimettere mano a un prodotto di culto a numerosi anni di distanza, correndo il rischio di scontentare alternativamente gli appassionati della prima ora, gli amanti della sua filmografia più recente, il pubblico televisivo contemporaneo o, potenzialmente, tutte e tre le categorie. Il tutto, peraltro, tenendo altresì conto dello scomodo quanto inevitabile confronto con la superlativa terza stagione di Twin Peaks. Per raggiungere l’obiettivo, occorreva realizzare una serie pressoché perfetta, sotto ogni punto di vista. Com’è andata? Scopriamolo nella nostra recensione di The Kingdom Exodus.
La trama: metacinema, risposte e la fine del mondo
“Ma che razza di finale è mai questo?”. Se lo sono chiesti per 25 anni pressoché tutti gli spettatori di The Kingdom una volta giunti al termine della famigerata seconda stagione, e se lo chiede anche l’anziana Karen, al termine della visione del proprio DVD. Mentre sul televisore scorrono i titoli di coda, la donna continua a tormentarsi sui tanti misteri lasciati irrisolti da von Trier in quella che, a conti fatti, le pare “una boiata pazzesca”.
A distanza di 25 anni dal cliffhanger del 1997, The Kingdom Exodus non riprende da dove ci aveva lasciati, ma fa ricorso al meta-cinema per oggettivare e osservare dall’esterno la serie originale, non senza una massiccia dose di autoironia.
Quindi era tutta finzione? Era tutto frutto della fervida fantasia di quel “maledetto regista”, Lars von Trier? Forse no, ma tutti sembrano volerci fare credere il contrario. Karen si mette a letto, ma le domande continuano a tormentarla. La donna è sonnambula, e nel corso della notte raggiunge in taxi l’ingresso dell’Ospedale del Regno di Copenhagen, sospinta da una misteriosa voce interiore che guida la sua ricerca, e la esorta a varcare la soglia.
Così facendo, oltre a mettere in scena un’efficace e scanzonata presa di distanze dalla serie originale, lo strumento della metanarrazione fornisce anche un nuovo punto di partenza narrativo per i nuovi spettatori della serie, che vengono semplicemente invitati a seguire le vicende di Karen. Varcata la soglia dell’ospedale, tutto cambia irreversibilmente: riecheggia la colonna sonora delle prime due stagioni, e sull’inquadratura cala improvvisamente il familiare filtro opaco e ambrato che aveva rappresentato uno dei tratti distintivi della serie originale. Aggirandosi nei corridoi dell’ospedale, Karen crede di riconoscere un volto familiare della serie originale, ma l’uomo si allontana bruscamente senza proferire parola.
Poco dopo, la donna ha una visione della statua di Ogier, mitico paladino norreno di Carlo Magno, considerato uno dei capostipiti della Danimarca. Sulla sua spada è incisa una sinistra profezia in latino: “Vide et disce: Exodus anceps ferrum est”, ossia “Guarda e impara: l’Esodo è una lama a doppio taglio”. Al termine della visione, Karen perde i sensi e viene ricoverata nella struttura.
Inizia così un viaggio all’insegna del mistero e del soprannaturale che, nel corso delle cinque puntate della miniserie, vedrà Karen raccogliere il testimone della signora Drusse e, con l’assistenza del portantino Boulder, cercare di fare luce sul vero significato della profezia dell’Esodo. Senza fare anticipazioni di sorta, ci preme tuttavia rassicurare gli amanti della serie originale: von Trier, dopo aver utilizzato il metacinema per attirarci tra le mura dell’ospedale infestato, non rinuncia alla sostanza e non soltanto dà vita a un intreccio narrativo avvincente e suggestivo, ma risponde in modo soddisfacente e con dovizia di particolari a tutte le domande lasciate irrisolte per 25 anni. Che ne è stato di Mona? Fratellino è davvero morto? Da chi era formata la misteriosa setta satanica che operava nell’ospedale? Dov’è finita la signora Drusse? Che cos’è la “Porta del Regno”? Ma soprattutto, cos’è che sarebbe dovuto succedere a Natale, come profetizzato a più riprese nella seconda stagione?
Durante la serie, tutti i nodi vengono al pettine e acquisiscono una nuova chiave di lettura grazie a un disegno narrativo ampio, coerente e ambizioso, che allarga la portata delle prime due stagioni e ci conduce alla scoperta di un’autentica Apocalisse secondo Lars von Trier. Mentre le indagini di Karen procedono, infatti, tra le mura dell’ospedale sta per andare in scena un’epica resa dei conti tra le forze del male e quelle del bene, in vista della quale assisteremo al ritorno di molti volti familiari e alla manifestazione di nuove, memorabili entità soprannaturali.
Il trionfo della follia
Nel frattempo, una seconda linea narrativa segue le vicende del medico svedese Helmer junior, che giunge al Regno deciso a fare carriera come vice primario proprio nell’ospedale che ha condotto suo padre alla pazzia e alla morte. “Mio padre era un gigante”, continua a ripetersi il figlio di Stig Helmer, che prova a nascondere – seppur con pessimi risultati – il suo radicale disprezzo per gli odiati “pezzenti danesi”. Purtroppo per lui, tuttavia, le cose non andranno come sperato, e degenereranno in una spirale di rivalità e improbabili disavventure ben più grottesche e demenziali di quelle della serie originale, tra ricatti, dispetti, gare di bevute, errori in camera operatoria, boicottaggi e molto altro ancora. A differenza del padre, però, Helmer jr. – che, essendo “mezzo Helmer” viene ribattezzato “Helmez” – non ha il coltello dalla parte del manico, e non può certo abusare a piacimento della propria posizione: sulla sua strada non ci sono soltanto gli altri medici del reparto, ma anche il pavido primario danese Pontopidan, pronto a tutto per evitarsi ogni tipo di problema e, al tempo stesso, sabotare le iniziative del suo nuovo sottoposto. Le cose finiranno per degenerare in un autentico trionfo della follia e dell’assurdo, che, al suo culmine, oltre a stravolgere la vita di tutti gli abitanti dell’ospedale, influenzerà e sconvolgerà pure le vicende dell’apocalisse soprannaturale.
Il risultato è un intreccio narrativo geniale, imprevedibile e irriverente, che utilizza indiscriminatamente mistero e risata, sacro e profano, passato e presente, apocalisse e farsa per tenere incollati allo schermo gli spettatori per tutta la durata della serie.
Un cast formidabile, tra grandi ritorni e nuovi ingressi
La serie originale, come già si è detto, venne cancellata dopo la morte prematura di tre colonne portanti del suo cast. Gli interpreti di Helmer, Drusse e del lavapiatti down, del resto, erano universalmente considerate figure iconiche ed essenziali, e tanto un recast quanto un rimpiazzo narrativo sarebbero risultate soluzioni deboli e fuori luogo.
Proprio qui risiedeva, probabilmente, la maggiore difficoltà nel realizzare The Kingdom Exodus, visto che, anche a 25 anni di distanza, il testimone continuava a rimanere molto pesante, e la situazione era ulteriormente aggravata da ulteriori defezioni.
A Lars von Trier, tuttavia, è riuscito l’autentico miracolo di non far rimpiangere il cast originale: la Karen di Bodil Jørgensen e l’Helmez di Mikael Persbrandt raccolgono alla perfezione l’eredità dei loro predecessori Drusse ed Helmer, catturandone l’essenza, il ruolo narrativo e i punti di forza senza, al tempo stesso, imitarli fino in fondo. La serie gioca molto sul senso di deja vu e sull’effetto nostalgia, ma i suoi protagonisti vivono comunque di vita propria e non mancano le varianti sul tema che scongiurano il rischio di un “reboot mascherato” popolato da copie sbiadite dei personaggi originali.
Lo stesso vale anche per Jesper Sørensen, il nuovo lavapiatti affetto da disabilità che, nel corso degli intermezzi, dialoga con un robot semovente dalla voce femminile, dotato, a quanto pare di un’intelligenza artificiale forte. Proprio come nella serie originale, il loro ruolo è quello del coro nell’antica tragedia greca: senza mai interagire con i fatti narrati, ci offrono commenti puntuali e saggi spunti di riflessione su quanto si è appena visto.
Come se non bastasse, il cast introduce nuove bizzarre e memorabili figure, come il primario Pontopidan (Lars Mikkelsen), la scaltra e subdola infermiera Anna (Tuva Novotny) e l’irascibile medico Naver (Nicolaj Lie Kaas), che si dimostrano capaci di non far rimpiangere i personaggi più weird e surreali della serie originale. La menzione d’onore va però a Willem Dafoe, che interpreta nientemeno che il demone Beelzebub, Gran Duca dell’Inferno e araldo di Satana, e ci regala una superba performance basata su sguardi spiritati e sinistre invocazioni in latino.
Per la gioia degli appassionati della serie originale, tuttavia, segnaliamo anche la presenza di numerosi ritorni, che però non vi sveleremo in questa recensione: il contributo del vecchio cast risulta tuttavia fondamentale per dare coesione al racconto e sigillare alla perfezione la trilogia.
Un teatro dell’assurdo tutto da ridere: Twin Peaks incontra The Office
In The Kingdom Exodus si ride moltissimo, decisamente di più dell’originale. Lars von Trier, come già detto a proposito della metanarrazione, sceglie di prendere le distanze da se stesso e dalla propria opera di 25 anni fa, rinunciando a qualsiasi tentativo di prendersi troppo sul serio. La sua è un’ironia corrosiva, dissacrante e senza freni, che mette in scena un autentico teatro della follia e dell’assurdo: durante le cinque puntate succede di tutto, ma davvero di tutto, ed è impossibile non piangere dalle risate.
Le prime due stagioni facevano incontrare i misteri esoterici e soprannaturali di Twin Peaks con le atmosfere di E.R. Medici in prima linea, offrendoci un ritratto caricaturale ma tutto sommato realistico della vita ospedaliera. Exodus, invece, si spinge molto oltre, e non esita a ricorrere agli scenari più demenziali e surreali, attingendo a piene mani all’immaginario di The Office. L’idea non è più soltanto quella di mostrare, come già fatto nel film Il Grande Capo, l’intrinseca assurdità dei rapporti di lavoro, bensì quella dell’intera esistenza umana, che diventa una farsa grottesca e irrazionale.
L’esilarante faida tra danesi e svedesi, in particolare, viene qui amplificata e condotta all’estremo, fino a trasformarsi in un’autentica guerra civile nei corridoi dell’ospedale, con nomi in codice, riunioni segrete e operazioni pseudo-militari.
Al tempo stesso, però, l’apoteosi del paradosso e della follia rimane confinata nel reparto ospedaliero, senza mai contaminare le atmosfere misteriose e i momenti più solenni e metafisici del racconto, rappresentati ovviamente delle indagini di Karen.
Esodo o Apocalisse?
Il sottotitolo della miniserie è “Exodus”, ma la storia è quella di una resa dei conti tra luce e tenebra, bene e male. A tutti gli effetti, si potrebbe anche ribattezzarla “The Kingdom Apocalypse”: per parlare di apocalisse, infatti, non occorre soltanto un racconto che parla della fine del mondo, bensì una vera e propria apokalypsis, una rivelazione ultraterrena durante la quale un messaggero del mondo celeste incarica un profeta di compiere una missione da cui dipenderanno le sorti dell’intera umanità. La miniserie rispetta in pieno gli standard del genere: il messaggero celeste è Ogier il Danese e la profetessa umana è la sonnambula Karen, incaricata di sventare i piani delle forze del male e contrastare l’imminente ascesa di Satana e del suo araldo Beelzebub.
Come da manuale ci sono simboli, enigmi e profezie, demoni oscuri e campioni della luce, e nel corso dell’avventura si raggiunge pure, finalmente, il primordiale stagno dei tintori che viene citato all’inizio di ogni puntata, incarnazione delle primordiali acque del Chaos da cui ogni cosa ha avuto origine. Proprio come nel libro biblico dell’Apocalisse, tuttavia, la resa dei conti finale non è una minaccia da evitare, bensì un evento fisso, inevitabile, scolpito nella pietra. E ovviamente, come profetizzato nella serie originale, “accadrà a Natale”.
L’obiettivo di Karen, quindi, non è quella di fermare il grande evento, bensì quello di fare sì che tutto vada come deve andare, senza interferenze da parte delle forze del male. Ma allora, perché Exodus? Nello scegliere questo titolo, von Trier ci riporta alle radici della mitologia della serie, che nasce pur sempre per raccontare una storia di fantasmi, o meglio, di spiriti intrappolati in una dimensione liminare, intermedia tra il nostro mondo e l’aldilà. Si tratta della “stanza di Swedenborg” vista nelle scorse stagioni, ma anche, più in generale, dell’intero Ospedale del Regno, che costituisce una sorta di dimensione purgatoriale dove la folla degli spiriti, ossia gli “uccelli migratori”, soggiorna in attesa di conoscere la propria destinazione finale.
L’Esodo che dà il titolo alla serie è il loro viaggio finale verso l’aldilà, e coincide con quella che, dal nostro punto di vista, è l’Apocalisse: gli spiriti maligni abbandoneranno il Regno per raggiungere l’inferno, mentre quelli benigni ascenderanno verso Paradiso. A meno che, ovviamente, qualcosa non vada come deve… La profezia di Ogier, del resto, è molto chiara: “L’Esodo è una lama a doppio taglio”.
Il capolavoro (finale?) di Lars von Trier
In The Kingdom Exodus, von Trier va molto oltre le aspettative e non si limita a soddisfare i fan passati, presenti e futuri della serie tv: la miniserie rappresenta un’autentica summa dell’arte del cineasta danese, e coniuga tutto il meglio del suo cinema.
C’è il lirismo struggente di Melancholia (“il cosmo – spiega un personaggio della serie – è pieno di dolore, e tenta invano di comunicarlo”), la satira socioeconomica de Il Grande Capo, la follia ironica e irrazionale di Epidemic, la carica onirica e metafisica di Antichrist, e molto altro ancora.
Non si tratta affatto, però, di una fusione fredda, né di un mero compendio di temi e suggestioni: nelle cinque puntate della miniserie, von Trier sublima tutto il meglio del proprio cinema, e ricombina gli ingredienti in chiave completamente inedita per produrre il suo capolavoro.
Con la sua trama accattivante e imprevedibile, il suo formidabile cast, la sua profonda mitologia apocalittica e un perfetto bilanciamento tra elementi eterogenei, The Kingdom Exodus è un instant cult che ha tutte le carte in regola per ergersi a rappresentare non soltanto un vertice della produzione di von Trier, ma anche una vera e propria pietra miliare della serialità contemporanea.
Purtroppo, il regista ha recentemente annunciato di essere affetto dal morbo di Parkinson, e la malattia gli ha persino impedito di venire a Venezia per la presentazione della serie. C’è quindi la possibilità che The Kingdom Exodus, oltre a rappresentare la fine di una trilogia, sancisca anche l’ultimo atto della sua carriera autoriale. Tuttavia, anche di fronte alla prospettiva della propria fine, Lars von Trier si conferma spregiudicato e irrefrenabile, e ride di tutto, anche di se stesso, con una geniale comparsata finale “lievemente diversa” da quelle a cui ci aveva abituato nelle scorse due stagioni.
In definitiva, un’apoteosi cinematografica da non perdere.
La recensione in breve
Apocalittica, provocatoria, lirica e demenziale al tempo stesso, la miniserie The Kingdom Exodus non è soltanto il perfetto atto finale della serie tv cult di Lars von Trier, ma rappresenta un autentico capolavoro, capace di condensare in cinque episodi tutto il meglio della filmografia del regista danese e rivaleggiare con le migliori serie tv contemporanee.
- Voto CinemaSerieTv