Da poco disponibile sulla piattaforma Disney+, la miniserie in dieci episodi (e dal minutaggio ridotto a poco meno di trenta minuti) The Patient è un thriller psicologico che è stato accolto favorevolmente sia da pubblico che da critica. Al centro della vicenda, il dottor Alan Strauss (uno Steve Carell alla sua consacrazione drammatica), rapito da un ex paziente e costretto da quest’ultimo a portare avanti le sedute di terapia incatenato al letto di un seminterrato. Il motivo del sequestro è presto spiegato: Sam Fortner (questo il nome del giovane rapitore) è un serial Killer incapace di dominare la sua compulsione a uccidere, e che individua nel dottor Strauss l’ultima possibilità di liberarsi dell’ombra che lo abita.
Come abbiamo già scritto nella nostra recensione di The Patient, la serie è scritta e ideata dai due creatori dell’acclamato – e pluripremiato – show di spionaggio The Americans, Joe Wiseberg e Joel Fields, che dimostrano ancora una volta il loro talento nello sfruttare elementi del genere thriller come trampolini di innesco per scandagliare aspetti piscologici.
Trattandosi di una miniserie autoconclusiva, abbiamo tutti gli elementi indispensabili per affrontare e cercare di analizzare insieme la prospettiva dei due autori, in questa nostra spiegazione del finale di The Patient.
Un rapporto impossibile
Sono due i percorsi umani che si srotolano lungo il corso dei dieci episodi di The Patient. Uno appartiene al serial Killer ed ex paziente Sam Forten (interpretato da un impermeabile Domhnall Gleeson), l’altro al terapeuta di successo ebreo Alan Strauss (uno Steve Carell che ci regala una interpretazione quanto mai dolente e calibrata). E se l’equilibrio fra terapeuta e paziente è già di per sè un processo delicato che necessita di requisiti inderogabili come fiducia e predisposizione alla collaborazione (che insieme concorrono alla creazione del cosiddetto “safe space”), a seguito del rapimento di Strauss da parte di Fortner la dinamica viene sovvertita e stravolta, moltiplicando i livelli di complessità di ruoli: il terapeuta è al contempo vittima del suo paziente e delle circostanze avverse, il paziente diventa un carnefice che continua però ad essere anche la vittima impotente di se stesso. È perciò evidente come questa nuova riconfigurazione delle parti poggi su una stortura che altera in modo fisiologico l’evoluzione dell’intero percorso, e che porta in sé, fin dalle sue premesse, il germe del fallimento.
Ma, col procedere degli episodi, i due percorsi umani non si sviluppano con pari intensità. Sam Fortner è un serial killer tutto sommato ordinario e dimenticabile, sprovvisto di quei tratti magnetici indispensabili a farne un soggetto/oggetto di attenzione e repulsione. È vero che, date le premesse narrative, il gioco obbligato ha come unici due partecipanti il terapeuta e il suo paziente (e il gioco metaforico diventa poi concreto nella sfida a ping pong fra i due protagonisti), ma è altrettanto indubbio che la vera partita che accompagna lo show riguarda il dottor Alan Strauss.
Alan Strauss e il dramma di una doppia partita
Dicevamo che la vera partita su cui si concentra la serie riguarda il dottor Alan Strauss. Sarebbe però più corretto dire che si tratta di una duplice partita, quella che riguarda la sua sopravvivenza fisica, e che lo pone in antagonismo col suo sequestratore e paziente, e quella, altrettanto spossante e sfibrante, contro le ombre del suo passato e dei suoi numerosi irrisolti. Cominciamo dalla prima. Nei confronti di Sam, Strauss è costretto ad attingere alle sue risorse professionali (e razionali) per prestarsi al ricatto di Sam (senza bisogno di dirlo esplicitamente, è piuttosto chiaro come la sopravvivenza del medico sia legata a stretta corda al successo della terapia). Ma a fianco della dinamica “orizzontale” che si instaura fra i due protagonisti, si sviluppa quella verticale, una tortuosa discesa a ruota libera negli strapiombi della coscienza, fra i traumi e i punti di sutura delle ferite di Strauss. È l’emotività che pressa da sotto la coltre della razionalità e si fa spazio nel presente.
Cosa sappiamo del dottor Alan Strauss
Le lunghe ore trascorse in una solitudine angosciosa, l’immobilità e l’attesa carica di frustrazione, sono gli elementi detonanti che avviano il percorso di discesa nella mente di Strauss. Quello che ci viene spalancato, con una disamina psicologica densa e appagante, è il vissuto e il mondo interiore di un uomo che sta ancora metabolizzando la perdita della moglie e gestendo la rabbia nei confronti del figlio. Attraverso i numerosi flashback scopriamo che il figlio del dottore si è progressivamente allontanato dalla famiglia (fino a rifiutare di accompagnare la madre nel momento della morte) dopo essersi convertito all’ebraismo ortodosso (che, per intendersi, si attiene alle leggi della Torah in modo letterale). La rabbia innescata dal comportamento del figlio è amplificata dalla frustrazione e dal senso di fallimento come padre e come terapeuta esperto nella gestione dei rapporti genitoriali. In questo, a fargli da specchio, interviene la figura di Charlie, l’ex analista morto e amico di Strauss, che gli appare in momenti semi allucinatori (“Se sto parlando con te, significa che la mia mente si è definitivamente dissociata.”, dirà Alan Strauss quando si ritrova nello studio del vecchi amico e terapeuta).
La stratificazione della mente di Strauss, un labirinto fatto di esperienze pregresse, di sogni vividi (che attingono anche all’inconscio collettivo dei campi di concentramento di Auschwitz) e di dialoghi con persone immaginarie, entra quindi in netto ed efficace contrasto con la ristretta linearità dello spazio in cui è costretto dal suo aguzzino. Il confronto fra passato e situazione attuale si rende improcrastinabile e conduce dritto a domande inevitabili e a lancinanti prese di coscienza: “ho mostrato più empatia e sforzo nel cercare di connettermi e capire le ragioni di un serial killer rispetto a quanto ho fatto col mio stesso figlio”. Perché se è vero che sono state le condizioni coatte a l’istinto di sopravvivenza a giocare un ruolo determinante, è anche vero che una parte di Strauss ha genuinamente cercato di contattare e innaffiare quel seme asfittico di umanità che si intravede in Sam Fortner. E noi, come spettatori, assistiamo all’avvilente insuccesso di ogni strategia terapeutica adottata da Strauss, incapace di manipolare a suo favore un omicida esasperato e schiacciato dalle sue compulsioni. Questo è Sam Fortner. E nonostante gli spiragli che occasionalmente illuminano le speranze di Strauss (e con lui le nostre), la realtà che si configura man mano che il finale si avvicina sembra puntare dritta verso l’unica risoluzione possibile.
Un finale frustrante ma coerente
Un finale in cui ci viene mostrata senza filtri la morte per strangolamento del dottor Alan Strauss a opera di Sam. Non ce l’ha fatta ad arrivare fino in fondo e a uccidere (con una lama ricavata dalla crema per i piedi) la madre di Sam, Candace (ennesima figura frantumata che racchiude in sé il ruolo di vittima vessata dal marito e di madre che non ha saputo/potuto proteggere il figlio). Non ce ne stupiamo, perché la rabbia vitale di Strauss (che perlopiù si esprime attraverso fantasie in cui immagina di spaccare una brocca sulla testa di Sam) trova il suo limite nella generale rassegnazione che accompagna il suo personaggio. Troppo stanco, troppo vecchio, troppo dolente per riuscire a prevaricare con la violenza di uno slancio vitale. Si era illuso di potersi regalare questa possibilità ogni secondo trascorso ad affilare il bordo del tubetto della crema contro lo stipite del letto. Ma in realtà, lo sguardo di Carell (che, lo ribadiamo, ci consegna tutto il suo talento drammatico) suggerisce bel altro. Ed è per questo “altro” che, nel corso delle su ultime ore, comincia a scrivere una lettera indirizzata ai due figli Ezra e Shoshana. Sono state le parole dell’ex terapeuta Charlie, che altro non è che la personificazione ideale del suo inconscio, ad averlo spinto in questa direzione: “Allora, che cosa vuoi fare con il giorno che ti resta?”.
In che direzione scegli di convogliare le tue risorse psicofisiche, quando il tempo a disposizione si contrae fino a mostrare il suo limite? La scelta per cui opta Strauss è una scelta che ha a che fare con l’attribuzione di senso: quella ricerca di senso che aveva cercato di attivare in Sam, spingendolo verso il riconoscimento e la ricostruzione dei suoi affetti (in questo caso con la ex moglie Mary). Non ha funzionato, per Sam (o lo ha fatto nei limiti che gli sono consentiti), ma è stato determinante per Strauss, che inizia a coltivare un intimo percorso di allontanamento dalla vita in cui il riconoscimento dei propri sbagli, della propria incapacità di accogliere senza giudicare, e le dichiarazioni di affetto e di stima trovano forma in una lettera ai figli che racchiude il senso di una vita.