In America ha battuto persino gli ascolti di House of the Dragon. In Italia, il volto iconico del suo attore protagonista campeggia su tutte le pubblicità di Paramount Plus, ed è ormai diventato uno dei simboli dell’emittente.
Stiamo parlando, ovviamente, di Tulsa King, una serie che pure, al momento del debutto sul piccolo schermo, sembrava andare ostinatamente controcorrente, dirigendosi a tutta velocità nella direzione sbagliata.
Mentre a fare la parte del leone erano i supereroi e il fantasy, con il boom di The Witcher e The Sandman su Netflix, Gli Anelli del Potere su Amazon e House of the Dragon su HBO, Tulsa King ha puntato su un bizzarro incontro tra crime e western.
E non stiamo parlando – badate bene – di un noir alla True Detective, Luther o Fargo, bensì di una serie scanzonata e piena di ironia, che pareva in ritardo sui tempi di 30-40 anni.
Come se non bastasse, anziché affidarsi ai nuovi talenti emergenti del panorama televisivo e cinematografico, la serie ha puntato tutto su un’icona della scorsa generazione, un personaggio ormai “fuori moda”, mai apparso come protagonista sul piccolo schermo: Sylvester Stallone.
Un azzardo solo in apparenza folle, che conferma la grande intuizione creativa di Taylor Sheridan, e il talento dello sceneggiatore Terence Winter (che purtroppo non farà ritorno per la seconda stagione).
Cerchiamo di scoprire la formula vincente della serie, che ha appena concluso la sua prima stagione su Paramount Plus (qui la nostra recensione): ecco i 5 ingredienti del successo di Tulsa King, con Sylvester Stallone.
1. Dwight Manfredi, un personaggio su misura per Stallone
Che si trattasse di un pugile italoamericano, un reduce del Vietnam, un papà camionista con la passione per il braccio di ferro o un giudice-giustiziere di una città futuristica, Sylvester Stallone ha sempre incarnato un’icona di forza, tenacia e determinazione.
Specchio dell’America raeganiana e delle sue mille contraddizioni, da eroe convenzionale finiva molto spesso per trasformarsi in un ribelle, pronto a sfidare i tradimenti e i voltafaccia dei poteri forti.
Il mondo, tuttavia, è profondamente cambiato, e limitarsi a portare uno Sly 76enne di fronte alle telecamere con l’ennesimo personaggio di questo tipo sarebbe stato un suicidio.
Prima del duo Winter-Sheridan, l’avevano già intuito Ryan Coogler in Creed e James Gunn ne I Guardiani della Galassia vol. 2, che avevano cercato di forgiare nuove identità per Stallone.
Lo stesso Sly, dirigendo I Mercenari – The Expendables, aveva scelto di puntare piuttosto sull’autoparodia, rendendosi conto che, nell’America contemporanea, non c’era più posto per quel tipo di icona.
Per la sua prima esperienza nel mondo seriale, però, serviva qualcosa di ancor più radicale e convincente, senza tuttavia snaturare la consolidata identità attoriale di Stallone, ed è così ha visto la luce Dwight “The General” Manfredi.
A detta dello stesso Sylvester Stallone – che da tempo sognava di vestire i panni di un gangster – si tratta di uno dei ruoli che più gli assomigliano davvero: un dinosauro di altri tempi, saldamente ancorato a vecchi valori e, come sempre, in crisi con la propria famiglia.
Un individuo orgogliosamente obsoleto e fuori moda, che fa a pugni con una contemporaneità che non capisce e non intende accettare.
In altre parole, il personaggio-tipo di Sly, ma sapientemente invecchiato di quarant’anni, tagliato fuori dal mondo per almeno venticinque a causa della prigione, e scaraventato in una realtà completamente nuova.
Il risultato? Semplicemente formidabile.
2. Una storia di riscatto
Un filo rosso che collega il Sylvester Stallone di ieri a quello di oggi, tuttavia, c’è eccome, e si tratta del tema della rivalsa e del riscatto.
Era il caso del mitico reduce John Rambo, ma anche delle grandi imprese di Rocky, chiamato a rialzarsi dopo le sue sconfitte sportive e personali (da quella clamorosa contro Clubber Lang all’infarto di Mickey, fino alla morte di Apollo Creed contro Ivan Drago).
Oggi ancor più di ieri, in un’epoca post-pandemica in cui le parole “crisi” e “resilienza” fanno capolino davvero un po’ ovunque, al cinema sono tornate in auge le storie di rivincita e di riscatto, in cui un individuo è chiamato a ripartire da zero e ricostruire la propria vita.
L’idea di un Dwight Manfredi che, dopo aver perso ogni cosa per proteggere il suo boss Pete Invernizzi si ora trova costretto a ricostruire un impero a partire dalla sperduta cittadina di Tulsa, quindi, non poteva non fare breccia nel cuore del pubblico.
Poco importa che si tratti di un noto criminale, o che il suo impero si fondi su traffici tutt’altro che leciti: la storia del nostro “Re di Tulsa” è perfetta per il mondo di oggi, e in fondo c’è un po’ di Dwight in ognuno di noi.
È il nuovo sogno americano: non più il self made man che crea il proprio successo da zero, bensì una sorta di “self repaired man”, un’araba fenice capace di risorgere dalle ceneri dopo ogni batosta.
Per Dwight non si tratta soltanto di una rinascita “professionale”: dopo tutti questi anni di carcere, e dopo alcune scelte decisamente infelici, il nostro eroe dovrà anche e soprattutto iniziare a ricucire un rapporto con la figlia Tina, nella speranza che la voragine da colmarenon sia diventata troppo ampia.
3. Tanta autoironia
Vorremo mica prendere sul serio il bolso 76enne Sylvester Stallone? L’obiezione è legittima, ma Tulsa King anticipa il colpo, e permea l’intera durata della serie di una vivace autoironia, prendendosi in giro con una dissacrante ironia.
Non era facile scegliere il tono giusto: scartata ovviamente la sitcom, bisognava anche considerare come né il personaggio di Stallone né la scrittura del duo Sheridan-Winter si prestassero a una commedia tradizionale.
Altrettanto poco convincente sarebbe stata una grottesca black comedy alla Fargo o alla The Tourist, tutta giocata sul paradosso insito nelle nostre relazioni sociali.
Tulsa King sceglie quindi la via dell’auto-parodia e della decostruzione dell’icona di Sly, muovendosi però con la giusta cautela: l’obiettivo non è mai quello di attentare al mito di Stallone o scadere nella comicità demenziale, bensì proporci una storia di crimine e di riscatto a tutti gli effetti, conferendole al tempo stesso una scanzonata leggerezza capace di farci sorridere e provare un pizzico di sana nostalgia.
L’obiettivo, semmai, è quello di tracciare un autentico tributo alla carriera del suo interprete.
La perfetta sintesi di quest’approccio è rappresentato dall’esame di guida del terzo episodio, nel corso del quale il protagonista si ritrova costretto a passare da una guida ingessata a favore dell’istruttore a un inseguimento spericolato per le vie di Tulsa dopo che un misterioso assassino ha aperto il fuoco durante la sosta al semaforo.
C’è chi, recensendo la serie oltreoceano, si è lamentato del fatto che Tulsa King assomiglia a un “hamburger servito a un cliente che abbia invece ordinato un piatto di spaghetti con i frutti di mare”.
A nostro avviso, questa scelta è proprio uno dei segreti alla base del successo della serie , che non cerca mai di rivaleggiare con Il Padrino e Boardwalk Empire, ma ci offre qualcosa di molto più insolito e originale.
4. Il fascino del West
“Se ci sono i cavalli, è un Western”, afferma una memorabile gag di Argo di Ben Affleck. La regola non funziona quasi mai, ovviamente, ma tutto sommato si adatta assai bene al caso di Tulsa King, che ci propone a più riprese la scena di un cavallo solitario che vagabonda solitario e senza padrone per le vie della città dell’Oklahoma, tracciando un evidente paragone con il memorabile protagonista della serie.
Non è un caso se il creatore della serie è proprio Taylor Sheridan, prolifico autore di Yellowstone, 1883 e 1923: pur essendo indipendente dalla fortunata saga della famiglia Dutton, Tulsa King rappresenta un tassello di un progetto creativo molto più vasto, che sta cercando di propiziare la rinascita del western sul piccolo schermo e, in particolare, di far fiorire un filone neo-western, caratterizzato da un’ambientazione contemporanea e da un’inevitabile evoluzione delle tematiche.
Qualcosa, però, resta inevitabilmente costante, e continua da decenni a esercitare un fascino senza tempo sugli spettatori: si tratta della frontiera, una terra remota e ricca di possibilità, molto lontana dalla rumorosa civiltà di New York e della costa atlantica.
Proprio come il selvaggio West di fine Ottocento, anche Tulsa, capitale dello stato dell’Oklahoma, con i suoi ranch, i suoi allevamenti e le sue riserve indiane, è un luogo magico e dimenticato da Dio che profuma di natura e di libertà: soltanto qui un uomo come Dwight Manfredi può riscoprire il proprio posto nel mondo e intraprendere una coraggiosa scalata.
Non molti hanno preso atto del forte cambiamento culturale in corso, e di come il fascino del West stia ricominciando a suggestionare le menti di milioni di spettatori.
Gli autori di Tulsa King l’hanno fatto, e giocando d’anticipo hanno scoperto una miniera d’oro. Ora devono soltanto difenderla, e continuare a sfruttarla nel migliore dei modi…
5. Promesse mantenute
Molto spesso una serie tv parte da ottime premesse narrative, ma può finire per scialacquare questi eccellenti presupposti con il passare degli episodi e adagiarsi su una formula ripetitiva.
È la vecchia logica dell’episodio pilota, che aveva il compito di conquistare il pubblico, la critica e gli executive di un’emittente, assicurando alla produzione un contratto a lungo termine.
Sparati tutti i fuochi d’artificio, però, allo spettatore non rimaneva che un pugno di mosche, e la serie si trascinava stancamente di settimana in settimana ripetendo le medesime dinamiche.
Certo, le cose sono parzialmente cambiate con l’avvento dello streaming, ma non mancano neppure oggi i “fuochi di paglia” che lasciano gli appassionati con l’amaro in bocca.
Tulsa King non cade nella trappola, e mantiene tutte le promesse nel migliore dei modi: grazie a una sapiente gestione della sceneggiatura scopriamo solo nella seconda metà della stagione chi siano i veri nemici di Dwight, e dove conduca la sua nuova strada, tra la minaccia del clan dei motociclisti guidato dal feroce Caolan Waltrip, e il costante conflitto con Chickie Invernizzi, nuovo boss della malavita newyorkese.
I toni cambiano, il linguaggio evolve e non si fa mai affidamento su alcuna “formula magica”, per quanto vincente: dopo l’ironia e la leggerezza dei primi episodi, ad esempio, a sparigliare le carte interviene una quinta puntata a tinte decisamente forti e drammatiche, dedicata al funerale del fratello di Dwight e a un oscuro dramma familiare del passato.
Insomma, per quanto Tulsa King esordisca fin da subito nel migliore dei modi, il vero progetto narrativo si sviluppa gradualmente nel corso della stagione, con colpi di scena e cambi di passo a dir poco magistrali.