Ha suscitato una ridda di polemiche l’annuncio che, in una nuova docuserie Netflix, la regina Cleopatra avrà i tratti di un’attrice di colore, Adele James.
In realtà Cleopatra VII, ultima regina d’Egitto, non aveva la pelle nera, e non era neppure egiziana: da quasi tre secoli, fin dalla vittoriosa campagna militare di Alessandro Magno, l’Egitto tardoantico era governato dai Tolomei, una stirpe di sovrani greco-macedoni che discendeva dal generale Tolomeo Lagide.
Paradossalmente, la dinastia fece di tutto per mantenere intatta la propria identità etnica, di cui andava particolarmente fiera, e ricorse anche in più occasioni ai matrimoni tra consanguinei per non mescolarsi ai suoi sudditi egizi (che, per inciso, non avevano la carnagione nera neppure loro!). La stessa Cleopatra, infatti, andò in sposa a suo fratello Tolomeo…
Come prevedibile sono stati in molti a protestare, alimentando quella che ha rapidamente assunto i tratti di un’autentica controversia internazionale.
Nei giorni scorsi l’avvocato egiziano Mahmoud al-Semary ha fatto causa a Netflix, chiedendo alle autorità locali di bandire la diffusione del documentario, perché promuoverebbe l’appropriazione culturale dell’età dei faraoni da parte del movimento afro-centrista. Anche Zahi Hawass, archeologo ed ex ministro della cultura, ha accusato Netflix di falsificare la storia.
Facciamo, però, un passo indietro: la docuserie si chiama African Queens, e il suo obiettivo è raccontare le biografie di alcune sovrane del continente nero dimenticate dalla storia.
Quella dedicata a Cleopatra è la seconda stagione, dopo un primo ciclo di episodi sulla regina Njinga. Con questa mossa, quindi, la serie Netflix a nostro avviso non tradisce soltanto la verosimiglianza storica, ma anche e soprattutto la propria stessa causa: anziché dar voce alle regine di colore dimenticate, sceglie di puntare sulla popolarità di una monarca bianca e appropriarsene, pur avendo a disposizione un’intera dinastia di faraoni e regine dalla pelle nera. Che figuraccia!
L’età dei faraoni neri
Quando pensiamo all’antico Egitto, ci vengono in mente i grandi sovrani della remota età delle piramidi, come Zoser, Cheope, Chefren e Micerino, ma anche i faraoni del cosiddetto Nuovo Regno, come il condottiero Tutmosis III, il monoteista Akhenaton, il giovane e sfortunato Tutankhamon, e soprattutto il grande Ramses II, comparso più volte al cinema come antagonista di Mosé (I Dieci Comandamenti, Mosé, Il Principe d’Egitto, Exodus: Dei e Re).
Al termine di quest’epoca d’oro, tuttavia, la valle del Nilo attraversò in un periodo di forte crisi, che coincise con l’ascesa del regno indipendente di Kush, nell’attuale Sudan. I re nubiani di Kush – contraddistinti da una marcata carnagione nera – acquisirono un enorme prestigio economico, trovandosi a fare da tramite tra l’Egitto e l’Etiopia (Punt) da cui provenivano le materie prime più preziose.
Durante un periodo di anarchia militare nella valle del Nilo, Kashta, re di Kush e figlio di un alto sacerdote di Luxor, marciò sull’Egitto e riuscì a farsi incoronare faraone.
Ebbe così inizio la XXV dinastia, detta la “dinastia dei faraoni neri”, che fu protagonista di intrighi degni di Game of Thrones! Pianki, figlio di Kashta, dovette combattere contro vari altri pretendenti per ascendere al trono, e sia lui che i suoi successori furono costretti a rivolgere lo sguardo a est per difendersi dalla minaccia di un formidabile impero straniero: quello degli Assiri.
Minacciati dal sovrano dell’universo allora conosciuto, Assurbanipal, i “faraoni neri” strinsero un’improbabile alleanza con il regno di Israele, riportarono varie vittorie per poi, inesorabilmente, avere la peggio.
L’ultimo faraone della dinastia, Tenutamon, dovette cedere l’Egitto agli assiri dopo la distruzione di Tebe, ma riuscì comunque a difendere coraggiosamente il regno sudanese di Kush, che continuò a rimanere indipendente per secoli.
Una storia che avrebbe davvero meritato un documentario, molto più della solita Cleopatra…
Le Divine Spose di Amon: tre sovrane di colore in Egitto
E le regine? Com’è del tutto evidente, il documentario Netflix non nasce soltanto per raccontare la storia di antichi monarchi africani, ma anche e soprattutto per raccontare la storia di donne che riuscirono ad affermarsi come sovrane.
Tecnicamente parlando, la “dinastia dei faraoni neri” vide sempre sul trono un regnante di sesso maschile, ma ciò nonostante possiamo legittimamente parlare a tutti gli effetti di una parallela stirpe di tre sovrane: la prima fu Amenardis, figlia di Kashta e sorella di Piye, a cui succedettero dapprima la nipote Shapenewpet, e poi la pronipote Amenardis II.
Dal momento che i “faraoni neri” erano costretti a mantenere lo sguardo fisso alla minaccia assira in arrivo da est e volevano evitare a tutti i costi una rivolta indipendentista da parte degli egizi, furono costretti ad accordare una notevole autonomia alla regione di Tebe, che rappresentava il cuore pulsante dell’economia e della religione della valle del Nilo.
La zona fu quindi governata in autonomia dalle Divine Spose di Amon, sacerdotesse appartenenti alla XXV dinastia che trasformarono il proprio ruolo religioso in un’autentica monarchia.
Nacque così una vera e propria dinastia, che per un secolo governò la regione di Tebe mentre sul confine nord-orientale infuriava la guerra contro gli assiri.
Le loro storie, però, sono note soltanto agli addetti ai lavori: con African Queens, Netflix e la produttrice Jada Pinkett avevano l’occasione di farle conoscere al grande pubblico, ma hanno preferito puntare per l’ennesima volta su Cleopatra, limitandosi a cambiarne il colore della pelle.
Un’operazione implicitamente razzista, orientata soltanto a esigenze di mercato: la prima stagione di African Queens – peraltro di buona qualità – non ha riscosso molto successo, e per evitare la cancellazione si è preferito puntare su un nome bianco ben conosciuto da tutti e suscitare un polverone.
La scorciatoia del blackwashing
Inutile dilungarsi sulle motivazioni di questa scelta: come noto, la cultura americana sta attraversando una stagione di profondo cambiamento, che ha posto al centro il tema della “representation”.
Fin dalle origini, il cinema occidentale è stato un cinema ostinatamente bianco e maschilista: si pensi, a mero titolo di esempio, a 007: Licenza di uccidere, in cui la popolazione afroamericana di Cuba è ridotta al rango di mere caricature, pedine decerebrate nelle mani del villain, il diabolico mr. No.
Un antagonista cinese, peraltro, interpretato sullo schermo dal canadese Joseph Wiseman, truccato con fattezze orientali.
Che le cose debbano cambiare è indubbio. Che si debba restituire alle etnie non caucasiche un’identità da troppo tempo sottratta, anche.
Quel che desta perplessità è semmai l’adozione di una scorciatoia assai discutibile: il “blackwashing”, ossia l’utilizzo di attori di colore per dar vita a personaggi storici, letterari o fumettistici tipicamente bianchi, anziché accendere i riflettori sui volti chiave della cultura afroamericana.
Ci limitiamo a focalizzare l’attenzione su un esempio particolarmente clamoroso, ma il discorso potrebbe espandersi all’infinito: negli ultimi due anni, Warner Bros ha progettato una serie su HBO Max dedicata al celebre detective dell’occulto John Constantine, e ha pensato di reinventarlo con le sembianze di un attore afroamericano, malgrado nei fumetti di Alan Moore il personaggio abbia la carnagione bianca e i capelli biondi.
Nel frattempo, anche per via delle controversie legate al film Justice League del 2017, un supereroe afroamericano come Victor Stone, alias Cyborg, è stato messo al bando da ogni futuro film della saga, senza neppure valutare il recast del personaggio.
La DC aveva a disposizione Black Lightning, Static Shock, John Stewart e tanti altri supereroi di colore ma ha preferito puntare sul “restyling” di un personaggio bianco più conosciuto. Se questa è “representation”…
Ma “african” significa per forza “black”?
Concludiamo con una riflessione a partire dal titolo della serie, ossia African Queens: quale sarebbe stato il problema nel dedicare la seconda stagione, se non a Cleopatra – che non era neppure africana – quantomeno a una grande e carismatica regina egizia come Hatshepsut, che portò molti decenni di prosperità nella valle del Nilo?
A quanto pare, nell’immaginario di Jada Pinkett e degli altri produttori della serie, “african” è sinonimo di “black”, e gli egiziani di ieri e di oggi, così come i libici, i tunisini e i magrebini, non rientrano a pieno titolo in questa categoria, perché non rappresentano adeguatamente la dinamica culturale attualmente in atto nella cultura americana.
È stata soprattutto questa sfumatura a scatenare le ire dell’avvocato Mahmoud al-Semary e dell’ex ministro Zahi Hawass, che si sono gettati nella mischia delle polemiche benché Cleopatra non fosse affatto una regina egizia. A detta del legale, sarebbe in atto un processo politico e culturale di afro-centrismo orientato ad affermare sempre di più, al cinema e in tv, lo standard etnico delle popolazioni dell’Africa centrale come modello di rappresentazione dell’intero continente.
Si pensi alla scelta di dare a Pietro una carnagione nera in Maria Maddalena (2018), o alla presenza di una jarl di colore nella prima stagione di Vikings: Valhalla (jark Haakon), poiché proveniente dalle coste meridionali del Mediterraneo: tratti somatici evidentemente fuori luogo, e del tutto estranei alle popolazioni di quelle terre.
Ai vertici di Hollywood, a quanto pare, si sta spingendo per portare i riflettori la popolazione afroamericana e la sua identità culturale, ma il fenomeno rischia di portare a una semplice sostituzione di una élite privilegiata con un’altra in seno all’industria cinematografica mondiale. Almeno quando si realizzano documentari che ambiscono a proporre un contenuto didattico e informativo sarebbe auspicabile lasciare da parte questo tipo di dinamiche…