Tra vichinghi, duchi e regine, nel filone delle serie tv a sfondo storico mancava ormai da parecchio tempo un titolo dedicato all’antica Roma. Se si escludono i prodotti parzialmente documentaristici come Barbarian Rising, occorre risalire addirittura all’eccellente Roma – Rome di HBO (2005-2007) e al provocatorio Spartacus di Starz (2010-2013) per incontrare due period drama dedicati all’epoca delle toghe e delle legioni.
Tra ottobre e novembre 2020, a poche settimane di distanza, il digiuno si è finalmente interrotto con non uno, bensì due telefilm dedicati all’epoca romana: su Netflix ha fatto il suo esordio la serie tedesca Barbari – Barbaren, mentre Sky ha ospitato il debutto di Romulus di Matteo Rovere, nato dopo il successo cinematografico del film Il Primo Re.
Pur fotografando due epoche molto distanti nella millenaria storia di Roma, le serie tv presentano più di un tratto comune, a partire dall’utilizzo dell’antica lingua latina, e si prestano facilmente a un confronto.
Ad accomunarle, tra le altre cose, è anche un insolito parallelismo nei tempi della produzione. Il 23 ottobre 2020, mentre Barbari debuttava in streaming su Netflix, la prima puntata di Romulus esordiva in anteprima alla Festa del cinema di Roma.
Nei mesi successivi, entrambi i period drama hanno poi riscosso un buon successo di pubblico, che è valso a tutte e due le serie un rinnovo per un secondo ciclo di episodi.
Ora, a due anni di distanza, per uno strano capriccio della sorte pure le nuove stagioni sono tornate a contendersi l’attenzione degli spettatori esattamente lo stesso giorno, il 21 ottobre 2022.
Se li si osserva più da vicino, tuttavia, i due telefilm non potrebbero essere più diversi, e le nuove stagioni ne hanno ulteriormente evidenziato le peculiarità, sancendo in maniera netta un vincitore e uno sconfitto. L’arena è pronta, e il duello all’ultimo sangue è iniziato: quale tra Romulus e Barbari è il miglior period drama dedicato al mondo dell’antica Roma?
La trama in breve
Addentrandosi in un territorio finora inesplorato sul piccolo schermo, Romulus esplora il Lazio primitivo dell’VIII secolo avanti Cristo, provando a ricostruire in chiave storico-realistica le mitiche vicende della fondazione di Roma.
Diversamente da quanto visto al cinema con Il Primo Re, la serie non si limita alle vicende di Romolo, Remo e della prima tribù romana, ma allarga alle altre civiltà della valle del Tevere, da Alba Longa alla lega latina dei Trenta Re, e dai Sabini e agli Etruschi.
La storia di riferimento è quella mitica, depurata però da ogni elemento fantasy: dopo la morte di re Proca, Amulio usurpa il trono del fratello Numitore, ma il giovane principe Yemos sfugge ai suoi sicari, e trova rifugio insieme allo schiavo fuggitivo Wiros tra gli adoratori di Rumia, la dea Lupa.
Barbari – Barbaren, invece, si svolge 800 anni dopo, e racconta la battaglia di Teutoburgo e la guerra senza quartiere tra Romani e Germani al tempo dell’imperatore Augusto, dando voce alle tribù barbare che abitavano sull’altra sponda del Reno.
Come noto, tutte le testimonianze storiche di cui disponiamo appartengono alla letteratura latina, e questa originale produzione tedesca – non senza un pizzico di nazionalismo – cerca di rovesciare la prospettiva e dare voce agli oppressi, facendo del traditore Arminio l’eroe del racconto.
Il giovane comandante romano di origini germaniche, strappato alla sua famiglia in tenera età, finisce così per incarnare l’archetipo del “figlio dei due mondi”, trovandosi chiamato a scegliere tra la lealtà al padre adottivo, il generale Publio Quintilio Varo, e la sofferenza dei suoi consanguinei, oppressi dalla crudeltà degli invasori.
Il progetto narrativo di Romulus
Con Romulus, il regista Matteo Rovere pone lo spettatore di fronte un progetto narrativo ambizioso e graduale, e lo sfida ad attendere con pazienza gli sviluppi del racconto.
Durante l’intera prima stagione, nessun personaggio rivendica per sé il mitico nome che dà il titolo alla serie, i due figli di Rea Silvia evidentemente non sono coloro che sulle prime potremmo pensare, e solo con il passare degli episodi si inizia a intuire chi possano realmente essere i due mitici figli della lupa che fonderanno la città di Roma.
La vicenda viene costruita con gradualità: il primo arco narrativo è una storia di ribellione, riscatto e distruzione di un ordine sociale ingiusto, e la promessa di costruire una nuova città si intravede solo nel filae. Al termine del primo ciclo di episodi alcuni nemici sono ancora vivi, Roma deve ancora venire alla luce e la mitica resa dei conti tra i due fratelli ancora è lontana.
Il compito di riannodare i fili della storia, raccontare la difficile fondazione di una nuova civiltà e l’inizio di una nuova era viene lasciato alla seconda stagione, rinviando a una terza – ancora da confermare – lo scontro fratricida tra i due fondatori.
Con un coraggioso azzardo progettuale, Rovere delinea insomma fin da subito un’architettura articolata su più stagioni, e non cade mai nella tentazione di bruciare le tappe e anticipare gli eventi più famosi al solo fine di strappare qualche spettatore in più.
Il racconto segmentato di Barbari
Barbari, invece, adotta una soluzione diametralmente opposta: la prima stagione delinea una miniserie potenzialmente autoconclusiva, in cui i Germani uniscono le forze contro gli oppressori romani e sconfiggono le legioni imperiali a Teutoburgo in una grande battaglia campale destinata a cambiare il corso della storia.
Anche l’intero arco evolutivo del protagonista viene già portato a compimento nel primo ciclo di episodi: Arminio passa da bambino ostaggio politico dei romani a giovane ufficiale dell’esercito imperiale, e da figlio adottivo del generale Publio Quintilio Varo a ritrovato campione della tribù germanica dei Cherusci, sciogliendo il dilemma tragico e ristabilendo un legame con le sue origini.
Certo, la materia storica a disposizione giustificherebbe senz’altro la presenza di ulteriori stagioni, dal momento che Arminio combatté a lungo contro Roma e contro il rivale Marbod, re dei Marcomanni, prima di essere finalmente sconfitto dal generale romano Germanico a Idistaviso nel 16 dopo Cristo, dopo essere comunque riuscito ad assicurare l’indipendenza alle tribù barbare che vivevano oltre il Reno e il Danubio.
Tuttavia, l’impressione di fondo è che gli sceneggiatori abbiano già giocato tutte le proprie carte nel primo ciclo di episodi, e nel corso della seconda stagione tentino invano di rilanciare il racconto limitandosi a lanciare disordinatamente nella mischia nuovi personaggi. I nostri beniamini finiscono così per ritrovarsi abbandonati a se stessi, senza un progetto per farli evolvere in nuove direzioni.
Anche la narrazione risulta bruscamente segmentata: dopo la grande battaglia di Teutoburgo, il racconto si ripiega su se stesso riproponendo sempre le medesime dinamiche, con l’arrivo di un altro esercito romano, l’emergere di una nuova spaccatura tra le tribù barbariche e una nuova grande battaglia finale, in cui il generale Tiberio, futuro imperatore di Roma, e il suo figlio adottivo Germanico vengono sconfitti dai Germani.
La sensazione è che il progetto complessivo – se così sì può chiamare – consista nel mero accostamento di segmenti narrativi autonomi, finendo per rubare una pagina agli stilemi tipici del cinefumetto: all’inizio della stagione si affaccia sulla scena si affaccia un nuovo antagonista, l’eroe affronta un momento di difficoltà, e tutto culmina sembra in una grande battaglia tra buoni e cattivi, stereotipati nelle loro posizioni.
Le inverosimili invenzioni storiche di Barbari
In passato – lo si sa – non sempre i period drama hanno brillato per fedeltà alle fonti storiche: in epoca più recente, tuttavia, si è affermata una linea autoriale più matura e consapevole, che privilegia il rispetto del materiale di partenza, sia pure nel rispetto della libertà artistica degli sceneggiatori.
La serie Netflix Barbari, pur ostentando un grande rigore formale, facendo ricorso alla lingua latina per i dialoghi dei soldati romani, dopo la prima stagione abbandona completamente la rotta, e inventa un’inverosimile successione di eventi che culmina addirittura nell’annientamento di un intero accampamento romano e nella clamorosa sconfitta di Tiberio e Germanico.
È quasi inutile precisare come, ovviamente, nulla di ciò si sia mai verificato: la disfatta di Teutoburgo ha rappresentato un evento dirompente nella storiografia latina, e un’ulteriore sconfitta sarebbe immediatamente entrata negli annali.
Svetonio narra che Augusto, dopo la sconfitta, abbia vagato per il suo palazzo urlando per giorni “Varo, rendimi le legioni!”, e sbattendo la testa contro il muro in preda alla disperazione. Pare decisamente inverosimile che, l’anno successivo, l’erede al trono Tiberio, e il suo figlio adottivo, Germanico, siano invece riusciti a rientrare indenni dalla Germania come se niente fosse dopo aver conseguito un’altra vergognosa sconfitta!
E in effetti, i fatti andarono ben diversamente: “Tiberio – riferisce lo storico Velleio Patercolo – attraversò il Reno con l’esercito. Passò all’attacco, mentre Augusto e la patria si sarebbero accontentati di rimanere sulla difensiva. Avanzò verso l’interno, aprì nuove strade, devastò campi, bruciò villaggi, mise in fuga tutti coloro che lo affrontarono e tornò ai quartieri d’inverno senza aver perduto nessun soldato tra quelli che aveva condotto oltre il Reno”.
Nessun massacro dei sovrani delle tribù germaniche, nessuna resa dei conti e nessun accampamento romano espugnato dalle forze Arminio.
Ricamare qualche tassello narrativo tra una riga e l’altra della storia può essere senz’altro utile alla narrazione e al prodotto artistico, ma uno svarione storico di questa portata risulta invece grossolano e del tutto ingiustificato, anche sotto il profilo puramente narrativo.
La ricostruzione archeologica di Romulus
Se Barbari poteva contare sulla presenza di numerose testimonianze storiche, e su una vicenda già molto conosciuta (soprattutto in Germania, dove il protagonista Arminio ha ispirato la diffusione del nome “Hermann”, finendo per diventare una sorta di primo eroe nazionale), Romulus si trovava a fare i conti con un terreno ben più accidentato.
Certo, tutti conosciamo la storia dei due gemelli adottati dalla Lupa, ma la storia del telefilm abbandona quasi del tutto gli elementi fantastici del racconto per concentrarsi soprattutto sui suoi aspetti più storico-realistici, come l’ascesa al trono di re Amulio, la guerra tra le tribù latine e i culti del Lazio primitivo.
Il regista Matteo Rovere era chiamato a inventare da zero un intero immaginario, non essendo mai comparso finora sul piccolo schermo il Lazio arcaico dell’ottavo secolo avanti Cristo. Si trattava di passare dal marmo all’argilla, dalle toghe alle tuniche in pelle, e dall’impero romano all’età del bronzo. La serie di Sky Atlantic, tuttavia, riesce alla perfezione nel suo intento, grazie anche al supporto di un team di esperti, alla costruzione di un gigantesco set a cielo aperto e all’uso accorto della CGI.
Certo, anche qui non mancano le deviazioni di percorso, a partire dall’uccisione, nella prima puntata, di uno dei due gemelli eredi al trono di Alba: in questo caso, però, si tratta di modifiche consapevoli, che il regista mette in atto con l’obiettivo di spiazzare lo spettatore per poi ricondurlo rigorosamente alla storia che tutti conosciamo.
Se Romolo è morto, chi è il vero Romulus?
L’intento non è soltanto quello di intrattenere il pubblico e di giocare con l’effetto sorpresa, ma anche e soprattutto quello di far riflettere lo spettatore sul delicato processo di costruzione del mito e di autolegittimazione: in un’epoca così remota, quali racconti rispondevano davvero a verità? E quali invece sono stati costruiti a posteriori?
Le lingue dell’antichità
Uno degli aspetti che accomunano Barbari e Romulus, invece, è senz’altro la scelta di recitare nell’antica lingua latina, enfatizzando la precisione storica del racconto.
Barbari ricorre ovviamente al latino classico dell’età augustea, e compie la pregevole scelta di adottare la difficile pronuncia originale (pronuntia restituta), anziché utilizzare quella, impropria, comunemente in uso nei licei. Il nome Caesar diventa così “kaësar” e non “cesar”, mentre Varus viene letto “uarus” anziché “varus”, e così via.
Romulus deve invece fare i conti con la ricostruzione a tavolino di una lingua di cui abbiamo poche testimonianze scritte, il proto-latino dell’VIII secolo avanti Cristo, ma riesce comunque egregiamente a raggiungere suo intento, con un plausibile equilibrio di radici indoeuropee arcaiche (bréter per “fratello”), declinazioni latine classiche e grecismi tanto evocativi quanto difficili da pronunciare (potnia per “déa”).
Anche sotto questo profilo, tuttavia, tocca purtroppo evidenziare una caduta di stile da parte della serie Netflix: se la ricostruzione della lingua dei romani è ineccepibile, risulta invece decisamente fuori luogo – ancor più in una serie raccontata dal punto di vista dei “barbari”! – la scelta di far recitare le tribù germaniche in tedesco.
L’accostamento del latino di Augusto alla lingua di Angela Merkel e Sebastian Vettel, senza alcun tentativo di invecchiare almeno un po’ quest’ultima, non può che lasciare perplessi.
Perché non utilizzare il proto-germanico? Oppure, se considerata una soluzione troppo difficile, perché non abbandonare del tutto l’ambizione di recitare in lingua originale? Ancora una volta, Barbari risulta convincere soltanto a metà.
Il verdetto
La serie tv Barbari, malgrado un budget piuttosto elevato e la scelta senz’altro encomiabile di raccontare i fatti storici dando voce alla fazione più debole e meno conosciuta, sembra ancora appartenere alla scorsa generazione dei period drama, dove la fedeltà storica passava sempre in secondo piano rispetto alle esigenze del regista e degli sceneggiatori.
Anche dal punto di vista cinematografico e narrativo, peraltro, la serie non riesce a proporre un progetto del tutto convincente, e si ferma ai fasti della prima stagione senza riuscire a costruire un’architettura complessa articolata su più stagione.
Romulus di Matteo Rovere, invece, non solo esce vincitore dal confronto, ma compie un eccellente lavoro di ricostruzione delle antiche civiltà della valle del Tevere, provando a demistificare la leggenda dei figli della Lupa e a farci riflettere sulla ritualità pagana e sul delicato processo di autolegittimazione del sovrano.
Non possiamo che consigliare calorosamente la visione del telefilm di Sky Atlantic, nella speranza che Rovere riesca a portare a termine il suo grandioso progetto e a scolpire una nuova pietra miliare nella serialità italiana contemporanea.