Ritrovarsi a discutere in maniera così accesa come lo si sta facendo in questi giorni con Blonde è un qualcosa che dovrebbe essere accolto come un prezioso dono. Il dibattito culturale attorno alle opere cinematografiche è sempre più sottile, sempre più raro. Il ricambio dell’offerta audiovisiva è così repentino da saturare di volta in volta molta più domanda di quanta forse, di fondo, ce ne sia, e il tempo di soffermarsi a criticare ferocemente o difendere a spada tratta un film o una serie TV è un lusso che si è disposti a prendere ogni volta un po’ di meno.
Tanto più, com’è il caso ancora di Blonde (qui trovate la nostra recensione), nei confronti di un film distribuito proprio da chi sul concetto di quantità e catalogo sconfinato fa leva, come Netflix. Questa premessa è di dovere perché rende chiaro ancora in maggiore misura quanto il film scritto e diretto da Andrew Dominik, arrivato in streaming a partire dal 28 settembre, sia degno di essere posto al centro del discorso a partire dalla capacità di polarizzare le opinioni e attirarsi addosso accuse di essere un’opera misogina, antiabortista, crudele, ai limiti della pornografia del dolore.
Quale Marilyn Monroe?
Ogni opinione, in quanto tale, è di per sé valida. Alcune sono meglio argomentate di altre, alcune guardano alla rappresentazione della protagonista, alcune si interessano di inserire il film all’interno di una riflessione sul meccanismo cinematografico. Su quest’ultima tipologia vorremmo provare a ragionare anche noi a partire dal modo in cui la regia di Dominik agisce nel e sul film.
Perché su Norma Jeane e sul suo alter ego Marilyn Monroe (Ana De Armas) si sta dicendo di tutto: abusata, brutalizzata, seviziata, messa in mostra come un corpo sacrificale sul quale continuare a banchettare con piglio cannibale. Si accusa Dominik di averla offerta in pasto alla crudeltà della vita negando al ricordo della donna un seppur minimo riflesso di gioia. Ma c’è da dire innanzitutto che Blonde è tratto dall’omonimo libro di Joyce Carol Oates, una biografia altamente romanzata da essere quasi totalmente un’opera di finzione, che costruisce e amplifica i tanti pettegolezzi cuciti addosso a Monroe.
Dominik rincara poi la dose, mette tutto questo in funzione del dispositivo cinematografico per dire una sola e unica cosa: di Marilyn Monroe, così come di Norma Jeane, non esiste più nulla. Ci rimane solo un’immagine, anzi ancora meglio un’icona, un carico di pulsioni, desideri e ricordi contraffatti. Ma da chi? E qui sta il postulato del regista, che si adopera con ogni mezzo che il cinema gli consente per muovere una messa in accusa all’occhio di chi guarda, che immortala sulla superficie dello schermo quello che vuole vedere, quello di cui vuole cibarsi.
L’intento della regia di Andrew Dominik
Ce lo rende chiaro una cosa in particolare: pensiamo alla presenza persistente dei flash delle macchine fotografiche che sono una costante lungo tutto il corso del film. Quando il congegno scatta, la lampadina brucia, lo schermo si irradia e Dominik lo mostra quasi come fosse una pupilla che si dilata da cui scaturisce il “cerchio di luce”, così come lo chiama Marilyn e solo in presenza del quale si dice di esistere in questa forma incastonata per sempre nella storia.
E nel modo in cui si propaga questa luce sta anche un altro spartiacque di Blonde. Da una parte c’è il bianco e nero, dall’altra c’è il colore. In un primo momento pare che il film di Dominik utilizzi questa dualità per separare le sequenze in cui siamo in presenza dell’icona cinematografica, il bianco e nero che accompagna Marilyn, e quelle in cui invece ci accostiamo all’intimità di Norma Jeane, a cui afferisce la scelta del colore.
Ma il confine non tiene a lungo, le barriere che mantengono separate queste due realtà finiscono ben presto per cedere e far collidere una sopra l’altra le due versioni di una moneta che ha una sola faccia. Non c’è una verità più vera di un’altra di cui essere partecipi, non c’è nulla di concreto da scorgere sotto le crepe di quell’icona di cui è fatto scempio in prima pagina. Dominik ci dice che quell’icona pervade ogni cosa, che il costo di quella immortalità contamina un ricordo diluito dall’immaginario collettivo.
Immagini feroci e inaffidabili
Il regista lo rende palese con l’utilizzo che fa del ricreare su schermo diverse fotografie celebri dell’attrice, in particolar modo due che la ritraggono con il secondo marito Joe DiMaggio (Bobby Cannavale) e poi con il terzo, Arthur Miller (Adrien Brody). In Blonde queste foto si animano, si smarcano dall’immobilità e fanno scaturire alcune delle sequenze di intimità di Marilyn (o Norma Jeane?) all’interno dei suoi travagliati matrimoni.
Ma come possono essere affidabili queste immagini, come possono essere prese a rappresentazione di altro che non sia quello che noi spettatori vorremmo vedere o pensiamo avremmo visto al loro interno? La genesi di queste sequenze è chiara, sono l’aspettativa di un vissuto dietro la messa in posa, di intimo non possiedono altro che la pulsione di chi osserva una vecchia fotografia e vorrebbe saperne qualcosa di più, finendo per fantasticare, per creare una verità altra, idealizzata. Un po’ come faceva sin da quando era una piccola Norma Jeane la stessa Marilyn, idealizzando un’altra icona incorniciata, quella di un padre tanto rassomigliante a un divo del cinema come poteva esserlo Humphrey Bogart.
Blonde, che è un film scomodo e spiacevole perché pone il punto di vista dello spettatore in una posizione scomoda e spiacevole, porta a interrogarci sulla necessità irrefrenabile di proiettare, feticizzare. Utilizza Marilyn Monroe perché l’icona per antonomasia, una figura che ha passato più tempo nelle pulsioni della collettività che in vita (è morta ad appena 36 anni), per di più, in quanto donna sessualizzata e desiderata, perfetto catalizzatore di un discorso che vuole lo sguardo, e le intenzioni dietro lo sguardo, lo strumento predatorio per eccellenza. È sicuramente sgradevole quando il film pone il punto di vista della macchina da presa all’interno dell’utero di una Marilyn che sta per subire un aborto non voluto, ma sta tutto lì il senso di quello che Blonde sta facendo.
Il potere dirompente dello sguardo e del cinema
Il cinema assolve quindi ottimamente al J’accuse di Dominik, che usa la malleabilità dell’audiovisivo per elaborare la sua discussione e per metterla anche in cortocircuito evidenziandone il suo ripetere le stesse dinamiche ancora e ancora. A questo intento può essere fatto quindi ricondurre l’ennesima caduta di coordinate del film, quel continuo cambio di formato che destabilizza il modo in cui percepiamo Marilyn. O meglio, la trasla, la trascina da un orizzontale 16:9 al quadrato del 4:3, fino a comprimerla verticalmente nel 4:5 tipico delle storie di Instagram.
È l’instabilità della realtà di cui sono tagliati gli sfondi, i contesti, le profondità a piacimento di chi la manipola. È la persistenza dell’icona che in queste forme rimane granitica perché dedita in tutto e per tutto al ruolo di una superficie a cui dare il senso che più aggrada. È il monito di un potere tanto grande da essere in grado di cancellare le identità, da polverizzare la soglia tra cosa è vero e cosa non lo è, da portarsi via per sempre una donna e la sua vita.