Due anni dopo Pacific Rim, film con cui Guillermo del Toro flirtava spudoratamente con la formula del blockbuster hollywoodiano pur mettendoci ovviamente del suo, il cineasta messicano è tornato all’ovile con Crimson Peak, un progetto volutamente più piccolo (55 milioni di dollari di budget, contro i circa 200 del precedente lungometraggio del regista), un esercizio di stile che si rifà alla Hammer britannica e all’opera dell’italiano Mario Bava. Un pezzo di gothic romance, come direbbero gli esperti in materia, dove amore e sangue si intrecciano in un ambiente che ostenta il suo essere artificioso e posticcio (una dimora ancestrale inglese che in realtà è stata costruita in un teatro di posa dei Pinewood Toronto Studios, in Canada). Fino ad arrivare a una conclusione perfettamente in linea con la visione del cinema e del genere che ha Del Toro, come proviamo a chiarire nella nostra spiegazione del finale di Crimson Peak. Ovviamente questo articolo contiene spoiler.
La motivazione dei fantasmi
Per gran parte del film viene spontaneo pensare che le presenze spettrali di Crimson Peak (nomignolo della casa dovuto al fatto che l’argilla della zona si mescola con i fenomeni atmosferici creando un effetto di precipitazione rossa sulla terra circostante) abbiano intenzione di far male alla nuova arrivata Edith Cushing, trattandosi di figure ormai prive di lineamenti umani, ricoperte di quel rosso bislacco (e interpretate fisicamente da Doug Jones, attore-feticcio di Del Toro, e Javier Botet, entrambi specializzati in ruoli mostruosi). Solo alla fine scopriamo che, sulla falsariga della defunta madre di Edith che l’aveva visitata anni addietro, volevano metterla in guardia circa le intenzioni del marito Thomas Sharpe: lui e la sorella Lucille, con cui ha un rapporto incestuoso, hanno già ammazzato le sue precedenti mogli dopo aver potuto accedere ai loro patrimoni per finanziare le invenzioni di Thomas. I fantasmi altro non sono che le vittime di questo sotterfugio, con l’aggiunta della madre di Thomas e Lucille, uccisa dopo averli colti in flagrante, e del figlio nato dalla loro unione, morto in tempi molto brevi.
I veri mostri siamo noi
“I believe in monsters”, ha detto Guillermo del Toro ritirando il Leone d’Oro vinto alla Mostra di Venezia nel 2017 per The Shape of Water. E salvo rare eccezioni (vedi Pacific Rim, per esempio), lui è sempre stato dalla parte di chi non è propriamente umano, sottolineando come molti dei comportamenti più mostruosi esibiti nei suoi film siano opera delle sedicenti persone “normali” (non a caso ha situato il suo Pinocchio nell’Italia del ventennio fascista, e sogna da anni di portare sullo schermo un nuovo adattamento di Frankenstein). Crimson Peak non fa eccezione, con i fantasmi come strumenti di giustizia divina nei confronti dei fratelli Sharpe, e in particolare di Lucille che, a differenza di Thomas, non si lascia minimamente influenzare da sentimenti che non siano per lui, arrivando persino a uccidere l’amato quando questi dichiara di essersi veramente innamorato di Edith. E per lui la redenzione arriva in forma spettrale, quando la sua presenza incorporea distrae la sorella abbastanza a lungo da permettere a Edith di darle il colpo di grazia, prima di congedarsi silenziosamente dalla moglie e sparire, come fanno presumibilmente anche gli altri fantasmi, liberati dai pesi spirituali che li trattenevano in quel luogo inquietante.
L’elaborazione del trauma
Inizialmente sembrava che Edith e Lucille, al di là dei consueti imbarazzi, fossero in grado di andare d’accordo per la loro passione comune per le arti: la scrittura per la neosignora Sharpe, la musica per la padrona di casa. Ed entrambe, alla fine, ricorrono all’espressione artistica per superare il trauma del loro ultimo, cruento incontro all’interno della dimora. Come suggeriscono infatti i titoli di coda, Edith, rientrata negli Stati Uniti, è riuscita a farsi pubblicare, e il suo romanzo, presumibilmente ispirato dalle vicende in Inghilterra, si chiama proprio Crimson Peak, con la realtà che è divenuta gothic fiction. Come dice nella sua voce narrante conclusiva, anche i fantasmi, come gli umani, sono legati a certi luoghi dai ricordi. E difatti ritroviamo Lucille seduta al piano, nel salone, ma non c’è più nessuno ad ascoltarla. Thomas, le sue defunte mogli e la madre hanno chiuso tutti i conti in sospeso che avevano nel mondo dei vivi, e sono felici altrove. Lei, invece, che non riuscirà mai a liberarsi del peso che è il senso di colpa per la morte del fratello/amante, è condannata a cercare di alleviarlo in eterno, unica inquilina di una dimora ancestrale le cui dimensioni ragguardevoli non faranno altro che sottolineare la sua solitudine permanente.