Quando, nel 1959, si ritira improvvisamente dal mondo del cinema, Douglas Sirk ha solo sessantadue anni ed ha appena raggiunto il picco della propria carriera: Lo specchio della vita, distribuito in primavera dalla Universal, si rivela infatti uno dei suoi film più apprezzati e si imporrà come il sesto maggior incasso dell’annata negli Stati Uniti. Eppure, da lì in poi il regista tedesco non riprenderà più in mano la macchina da presa: trascorrerà i tre decenni successivi in Europa, dedicandosi all’insegnamento e al teatro, per poi spegnersi a Lugano, in Svizzera, alla soglia dei novant’anni. E proprio in Svizzera ha luogo, in questi giorni, una retrospettiva completa delle opere di Douglas Sirk nella cornice del Festival di Locarno, che per la sua settantacinquesima edizione ha scelto di rendere omaggio al massimo rappresentante del melodramma hollywoodiano, nonché uno dei cineasti più influenti di sempre.
Dall’Europa a Hollywood
Nato ad Amburgo, nella Germania imperiale di fine Ottocento, con il nome di Hans Detlef Sierck, Douglas Sirk appartiene alla folta schiera di cineasti, sceneggiatori e intellettuali che, con l’ascesa del nazismo, decidono di abbandonare il vecchio continente per trasferirsi negli Stati Uniti (da qui l’adozione di uno pseudonimo inglese); nel caso di Sierck/Sirk, che dopo una lunga esperienza in palcoscenico era stato ingaggiato dalla UFA, l’esilio dalla Germania è dovuto al matrimonio con una donna ebrea, l’attrice Hilde Jary. In America, Sirk riprende l’attività di regista a partire dal 1943, facendo leva su una sorprendente versatilità: dal dramma bellico in chiave antinazista (Il pazzo di Hitler, Il sottomarino fantasma, Tempo di vivere) al noir (Lo sparviero di Londra, Fiori nel fango, La campana del convento), dal musical (Amanti crudeli, Incontriamoci alla fiera) alla commedia brillante (Elena paga il debito, Vedovo cerca moglie, Non c’è posto per lo sposo), dal western (Portami in città, Il figlio di Kociss) all’avventura (Il ribelle d’Irlanda), passando perfino per il peplum (Il re dei barbari).
L’alfiere del melodramma
Eppure, c’è un genere specifico per il quale Douglas Sirk dimostra una particolare predilezione, al punto da diventarne forse il massimo esponente nell’ambito della Golden Age hollywoodiana: il melodramma. La sua capacità nel raccontare storie di passioni contrastate, famiglie in crisi e amori disperati andrà modellandosi già a partire dai primi film, fino ad assumere una forma pienamente compiuta negli anni Cinquanta, il periodo d’oro della sua carriera, sotto l’egida della Universal: una fase a cui danno avvio nel 1953 Desiderio di donna, con Barbara Stanwyck, ma ancor di più Magnifica ossessione nel 1954, con Jane Wyman e Rock Hudson, remake di Al di là delle tenebre del 1935. La love story fra un ex-playboy redento e una donna che sta diventando cieca mette già in luce un tratto distintivo del mélo alla Sirk: la tendenza a trascendere il realismo in favore di una forza espressiva che si estende a ogni elemento della messa in scena, dagli accesi cromatismi (siamo nell’epoca dell’apogeo del Technicolor) all’impiego delle musiche.
L’America degli anni Cinquanta, tra conformismo e trasgressione
Nello spazio di poco più di un lustro, fra il 1954 e il 1959, Douglas Sirk darà vita dunque ad alcuni fra i più importanti classici del melodramma: talvolta nel segno di un’accentuata stilizzazione (è il caso, appunto, di Magnifica ossessione) che gli alienerà una buona fetta della critica del tempo, talaltra con una maggior attenzione ai fermenti sociali dell’America degli anni Cinquanta. Non è un caso che, dietro un apparente conservatorismo, il cinema di Sirk finisca spesso per increspare la superficie patinata dell’American way of life, sfiorando più di qualche tabù: in Secondo amore, del 1955, Jane Wyman interpreta una vedova che si innamora di un uomo più giovane, suscitando la riprovazione della comunità e dei propri figli; un anno più tardi, in Quella che avrei dovuto sposare, il padre di famiglia Fred MacMurray riscopre l’attrazione per la sua ex-fidanzata, l’imprenditrice Barbara Stanwyck, e accarezza l’idea di ricominciare una nuova vita con lei; mentre Lo specchio della vita prende di petto la questione razziale attraverso la vicenda di una ragazza che rifiuta e nasconde le sue origini afroamericane.
Il modello di Sirk, ieri e oggi
Bisogna anche ricordare, del resto, che nella Hollywood del Codice Hays, e più in generale nell’America ultraconservatrice degli anni Cinquanta, nessuna produzione hollywoodiana poteva essere apertamente sovversiva rispetto alla morale comune: da qui le soluzioni ‘rassicuranti’ di molti finali dei film di Sirk. Eppure, nella descrizione delle pulsioni e dei sentimenti dei suoi personaggi si manifesta la natura fiammeggiante di un cinema che, da lì a breve, avrebbe goduto del giusto riconoscimento da parte degli autori della Nouvelle Vague e, in seguito, da studiosi e cinefili di varie generazioni. Come le foglie al vento, enorme successo del 1956 con Rock Hudson e Lauren Bacall, costituirà l’archetipo del melodramma familiare alla radice di molti serial televisivi dagli anni Ottanta in poi, mentre Secondo amore sarà la fonte d’ispirazione de La paura mangia l’anima di Rainer Werner Fassbinder e di Lontano dal paradiso di Todd Haynes: due registi, fra i tanti, che a decenni di distanza avrebbero recuperato e rielaborato la ‘lezione’ di Douglas Sirk, dandoci conferma della sua straordinaria modernità.