Nel 2019, Rian Johnson omaggiò il giallo classico, genere a cui è particolarmente affezionato, firmando il film Cena con delitto – Knives Out, l’esordio del detective Benoit Blanc interpretato da Daniel Craig. Tre anni dopo, in parte in sala ma soprattutto su Netflix, Johnson e la sua irresistibile creazione sono di nuovo tra noi con il sequel Glass Onion – Knives Out(di cui vi abbiamo parlato nella nostra recensione), che adotta un approccio leggermente diverso per rielaborare in ottica odierna gli stilemi del tradizionale whodunit alla Agatha Christie. Un approccio che vogliamo commentare nella nostra spiegazione del finale di Glass Onion – Knives Out. N.B. Questo articolo contiene spoiler.
Cambio di strategia
Nel primo film la componente autoriflessiva era molto forte, con la scelta di avere come vittima un celebre autore di gialli (delizioso il momento in cui lo scrittore, resosi conto che sta per morire di overdose accidentale perché gli hanno invertito i flaconi dei medicinali, commenta “Devo segnarmelo, è un ottimo metodo per uccidere qualcuno”). Quando si inizia così, viene spontaneo chiedersi come sarà possibile andare oltre nel seguito? E difatti Rian Johnson non ci prova nemmeno. Anzi, la componente “meta” se così vogliamo chiamarla in questo caso, si esaurisce sostanzialmente nella prima mezz’ora, in particolare tramite i camei dei compianti Stephen Sondheim, sceneggiatore di un film con una premessa simile a quella di Glass Onion, e Angela Lansbury, alias Jessica Fletcher. E che non sarà il solito mistero intricato è un elemento che Johnson annuncia sin dall’inizio, tramite il titolo.
Il significato della cipolla
Nel film, il Glass Onion, la cipolla di vetro, è il nome dell’isola privata di Miles Bron in Grecia, e del bar dove i vari personaggi si sono conosciuti anni addietro. È anche una struttura sull’isola stessa, ed è osservandola che Benoit Blanc finalmente si rende conto del vero significato dell’oggetto, e con esso del mistero al centro film: in apparenza ci sono tanti strati, ma in realtà è tutto trasparente, davanti ai nostri occhi. La soluzione è (volutamente) banale, l’inversione di quanto accaduto nel primo film: nel 2019, Johnson aveva persino contemplato l’opzione di modificare l’ordine dei credits nei vari materiali promozionali, al fine di fregare chi – non interamente a torto – sostiene di poter indovinare chi è l’assassino a seconda di chi sia l’attore più famoso il cui nome appare subito dopo quello dei detective. Una soluzione teoricamente possibile anche per il cast corale reclutato per l’occasione, che rendeva difficile affermare con certezza se ad accoppare Christopher Plummer fosse stato Michael Shannon, o Chris Evans, oppure Toni Collette, e così via. Qui, fin dalla sua prima apparizione nel film, i dubbi sono ridotti al minimo: è ragionevole presumere che l’assassino sia Edward Norton, uno dei cattivi hollywoodiani per eccellenza (e, senza nulla togliere agli altri eccellenti interpreti, di gran lunga il più celebre del gruppo di indiziati).
Miliardi che vanno in fumo
Come nel capostipite, l’oggetto principale della furia satirica di Johnson è chi si è arricchito sfruttando senza pietà gli altri, e anche per questo era facile indovinare che il killer fosse Miles, il miliardario da cui tutti gli altri dipendono sul piano professionale (laddove nel primo episodio, essendo tutti i sospettati membri della stessa altolocata famiglia, erano più o meno alla pari sul piano finanziario). Un miliardario che sostiene di essersi creato da solo grazie a intuizioni geniali, ma che sulla falsariga di un Donald Trump o un Elon Musk (quest’ultimo il principale termine di paragone quando il film è uscito in sala, per questioni di tempistiche) è un incompetente il cui statuto di sedicente genio degli affari è un mix di eccellenti capacità autopromozionali e – scusate l’espressione – di botte di culo. E come i due signori appena menzionati, è disposto a tutto per liberarsi di qualsiasi prova che smentirebbe la sua grandezza, dando il via a una serie di eventi che alla fine lo lascia con la credibilità distrutta quando la sua casa va a fuoco, con al suo interno la Gioconda prestata dal Louvre.
E viene in mente quello che Johnson ha detto a Toronto, presentando il film come evento di gala: a domanda diretta sulle difficoltà nello scrivere un intreccio che deve essere qualche passo avanti rispetto al pubblico, lui ha affermato che non lavora in quel modo, perché pensare di essere più intelligente dello spettatore è deleterio per il risultato finale. Difatti non ci prova nemmeno, e lo dice platealmente: la cipolla di vetro ci trae in inganno, ma gli elementi per arrivare alla giusta conclusione c’erano da subito. Anche perché il riccone che ha organizzato tutto e si credeva il più furbo sulla faccia della Terra alla fine della fiera è innegabilmente, gloriosamente stupido. E il vero enigma è sapere se la sua punizione morale e finanziaria (per quella giuridica non ci è dato saperlo all’interno del film stesso) sarà direttamente proporzionale alla sua spietata arroganza. Con una risposta spudoratamente affermativa, intrisa di fuoco, fiamme e vendette postume.