Sono passati quasi dieci anni dall’uscita di Interstellar, un progetto che Jonathan Nolan aveva iniziato a scrivere per Steven Spielberg, per poi coinvolgere il fratello Christopher in seguito a una questione burocratica dietro le quinte. Un film che i fratelli Nolan hanno usato per esplorare a livello cosmico i rapporti umani e firmare un epico racconto di fantascienza realizzato senza CGI, fedele alla filosofia di Christopher sull’uso di tecniche artigianali quando possibile. E come in molti film del regista c’è anche una riflessione sulla struttura narrativa e sull’uso della cronologia, fino ad arrivare a una conclusione che unisce tutti gli elementi principali dell’opera, e di cui parliamo in questa nostra spiegazione del finale di Interstellar. Attenzione, seguono spoiler!
Cosa accade nel finale di Interstellar
Sacrificatosi per permettere ad Amelia Brand il terzo e ultimo dei possibili pianeti abitabili, Cooper scopre di essere finito dentro una forma geometrica che gli consente di interagire con il passato, e si rende conto di essere sempre stato, tramite un paradosso temporale, il “fantasma” di cui Murph parlava da bambina. Dopo essere stato nella camera di lei, fa in modo di poterla contattare tramite codice Morse quando è adulta, e con l’aiuto del padre Murph riesce a risolvere l’equazione necessaria per rendere possibile l’esodo dalla Terra. Rispedito nel presente, in orbita intorno a Saturno, Cooper, ancora più o meno della stessa età che aveva al momento della partenza, rivede finalmente Murph, ormai anziana e in fin di vita, e lei gli fa promettere di partire per un’altra missione: salvare Brand, la quale nel frattempo si è abituata al terzo pianeta, la cui aria è respirabile.
Omnia vincit amor
Il paradosso temporale – in base a cui tutto avviene in una circolarità di eventi che si verificheranno sempre – è un elemento che non poteva mancare all’appello nella filmografia di Christopher Nolan, un regista che si è interessato alla cronologia e alle sue implicazioni sin dal suo primo lungometraggio, Following, per poi esplorarne i vari meccanismi in film come Memento, Batman Begins e The Prestige e infine portare il tutto alle sue estreme conseguenze in Tenet, dove gran parte dell’intreccio è letteralmente al contrario. E, come in molte variazioni sul tema, anche il suo paradosso temporale ruota attorno a un legame di affetto famigliare, una nozione in parte straniante nel cinema di Nolan, dove i rapporti interpersonali non hanno sempre una grande carica emotiva, ma dettata da grande sincerità come si può evincere proprio in Interstellar, dove l’ultimo incontro fra padre e figlia è l’applicazione di ciò che Brand aveva espresso in precedenza, ossia che l’amore è in grado di trascendere il tempo e lo spazio (e la cosa acquisisce maggiore rilevanza alla luce di interviste in cui Nolan, noto per il suo uso della convenzione narrativa della moglie morta, afferma che per lui non esiste scenario più terrificante che la perdita della famiglia).
Scienza e fede
Da sempre molto rigoroso, con una grande attenzione all’apparato tecnico dei suoi lungometraggi, Nolan è nel suo elemento in un film di fantascienza che trae spunto da teorie reali e cerca di applicarle nel modo più verosimile possibile, ma c’è anche un certo romanticismo di fondo nella sua elaborazione di ciò che accade nello spazio profondo, come sottolinea la parte finale che per certi versi ricorda ciò che Steven Moffat ha fatto con la sua gestione di Doctor Who (in particolare le stagioni con Matt Smith, dove i paradossi erano all’ordine del giorno e alimentavano l’aura da fiaba cupa che Moffat aveva dato alla propria gestione dello show). E in quei momenti diventa chiara l’unione tra razionalità e fede, con Cooper che diventa “fantasma” e mantiene, da una sorta di aldilà, la promessa fatta a suo tempo alla figlia, prima di ritrovarla dal vivo in una realtà a suo modo assurda dove lei è molto più vecchia di lui.
E con quell’unione di razionale e irrazionale, quell’esplosione d’amore che guida il viaggio di Cooper attraverso la forma geometrica, si spiega anche quella che di primo acchito è stata la scelta più bizzarra di Nolan per la componente artistica e tecnica del film: la musica spesso fin troppo invadente di Hans Zimmer, sovrapposta a dialoghi cruciali come se questi non fossero importanti. Musica che il compositore tedesco ha ideato, su richiesta del regista, servendosi principalmente dell’organo della chiesa londinese di Temple Church, uno strumento risalente al 1926. Per l’intero film, quindi, un oggetto associato al divino ha interagito con la scienza, a volte soffocandola, fino a raggiungere l’equilibrio ideale alla fine, racchiudendo in quelle note il messaggio che i fratelli Nolan (e forse anche Spielberg quando doveva occuparsene lui) volevano veicolare: non basta solo il calcolo freddo e preciso. Ci vuole anche un po’ di fede. La stessa che il cineasta, con le sue scelte estetiche e tecnologiche, dimostra di avere, da sempre, nelle potenzialità dell’esperienza cinematografica in sala, l’equivalente, per lui, di un luogo di culto, con lo schermo a fare da organo.