Puoi anche chiudere gli occhi davanti all’orrore. Anche fingere che non esista. Ma non puoi tapparti le orecchie. E allora in qualche modo quell’incubo finirà per torturarti, insinuandosi dentro di te, fino al tuo cervello. Non sappiamo con certezza se sia stato proprio questo l’assunto che ha spinto Jonathan Glazer a raccontare l’Olocausto nello straordinario La zona d’interesse. Certo è che l’utilizzo dei suoni, dei rumori, perfino dei silenzi ha contribuito in maniera essenziale a rendere il film una delle opere più belle (e dolorose) su quella devianza dall’umanità che è stato il nazismo.
Come vi abbiamo spiegato nella nostra recensione del film, Glazer ha rappresentato l’orrore del nazismo dando corpo in maniera magnifica all’annullamento messo in atto dai seguaci di Hitler nei confronti degli ebrei. Una lucida eliminazione dell’altro, mossa da una spietata visione della vita da cui si doveva cancellare ogni forma di alterità, agita con rigore razionale. Lo ha fatto senza mostrare mai immagini che potessero essere per noi in qualche modo familiari (pur se inaccettabili). Con l’essenziale collaborazione del sound designer Johnny Burn (coadiuvato da Tarn Willers al missaggio) e della compositrice Mica Levi, Glazer ha invece spostato l’asse dell’attenzione dagli occhi alle orecchie. Passando da una comprensione razionale della storia a una viscerale.
Cosa ascoltiamo nel film? Urla, pianti, scariche di mitra. E quel terribile rumore a cui non vogliamo dare un nome, legato all’incessante lavoro dei forni. Si resta attoniti dopo la visione di La zona d’interesse. Chi si aspetta il “classico” film sull’Olocausto, con contorni netti tra bene e male, resta per forza deluso. Non è uno Schindler’s List in cui la ferocia di un Amon Goeth viene mostrata con l’intento di provocare repulsione, rabbia. La zona d’interesse ci immerge nella normalità atroce, di un bianco abbacinante, di un gerarca nazista, Rudolf Höss, che vive con la sua famiglia a un passo da Auschwitz, in una casa non toccata da quella tragedia. Ci getta nella storia senza distanza di sicurezza e così facendo schiaccia anche il nostro punto di vista di noi spettatrici e spettatori che non abbiamo scampo davanti a quell’abominio solo suggerito.
Il lavoro sul suono
Come detto da Glazer in un’intervista a Rolling Stone magazine, c’è un film che vedi e uno che senti. La tessitura del suono è ciò che in qualche modo ci porta a partecipare a questo “spettacolo”. Rispetto ai protagonisti – Höss e la moglie, i figli, la servitù – abbiamo una visione più ampia del quadro, intuiamo, anche senza vederlo, cosa succede oltre le mura di quella casa. Tuttavia questa conoscenza ci rende inermi, angosciati. Per questo il film lascia addosso un senso di dolore inaffrontabile. Un raccapriccio che non va via. Verrebbe da chiamarla disperazione, tanto più forte quanto più profonda. A questo risultato rimarchevole (no, non è una passeggiata vedere il film, ma è quanto mai consigliato) si arriva, come detto, grazie all’incredibile lavoro sul sound design compiuto da Burn, candidato all’Oscar.
Spiega Burn in un’intervista concessa a BBC Culture. “Gli effetti del suono sono più viscerali, rispetto a quello che vediamo. Il suono dipinge un quadro che è totalmente personale e lo fa in un modo che ti connette all’inconscio. Non lo puoi razionalizzare come una foto, entra sotto pelle. Puoi gabbare gli occhi di qualcuno, ma non le sue orecchie“. In effetti, questo è il motivo per cui i podcast stanno ottenendo un così grande successo: la loro capacità di arrivare nelle nostre profondità, senza passare dalla via razionale, ma solo attraverso la voce e i suoni appunto. “Gli occhi reagiscono più lentamente delle orecchie. Puoi rispondere a un suono molto prima che il cervello lo razionalizzi. E questo ti spaventa a morte“, ha aggiunto.
L’audioteca della paura
Burn si è mosso in una duplice maniera per poter rendere al meglio i suoni di Auschwitz. Da un lato ha lavorato sulle dichiarazioni dei sopravvissuti, molte delle quali ricchissime di dettagli sonori. “Le persone parlavano dei rumori del filo spinato elettrico, della musica delle orchestre, dello scalpiccio degli zoccoli di legno“. E, naturalmente, le urla e le armi. Essenziale, poi, per dare forza all’insieme è stato riprodurre e utilizzare il suono delle macchine del campo. Un rumore così sinistro e totale da poter sostituire tutto il resto.
Dall’altro ha invece ricreato dei suoni, partendo dall’attualità. Per esempio, per avere delle urla realistiche, sono state registrate le voci dei protestanti di Parigi, durante le manifestazioni degli anni scorsi. E per immortalare i bagordi notturni delle guardie, sono state registrate voci di uomini ubriachi nella Reeperbahn di Amburgo. Dove possibile, poi, si è giocato sull’ambiguità, in modo da spingere lo spettatore a chiedersi se fossero fischi di treno o grida. Il lavoro di associazione tra suono e immagini è durato circa un anno e mezzo. Tempo molto lungo in cui il designer audio ha calibrato al meglio ogni dettaglio.
Il risultato finale di questo lavoro certosino è davvero eccezionale ed è organicamente connesso al film. Un dramma gelido, ma con momenti di tenerezza se possibile ancora più oppressivi, che non fa sconti. Costruito su immagini geometriche, apparentemente perfette, ma che si distorcono nei grandangoli. La rappresentazione impeccabile di un pensiero malato. Cosa sono quei 40 km quadrati di zona d’interesse che separano la casa di Höss dal campo di concentramento, se non un fazzoletto di mondo in cui domina la disumanità. Qualcosa che va oltre il male, perché il male ha in sé il concetto di bene, che si sceglie o meno, in piena libertà. Il pensiero malato è qui deviazione dall’umanità, rosicchia il cuore poco alla volta, annerisce l’anima. E provoca nausea.