Lo schermo è ancora nero mentre, proprio all’inizio di Nope, ascoltiamo le voci e i rumori provenienti da un set televisivo; un set che, pochi istanti più tardi, ci apparirà insolitamente desolato. È già di per sé una scelta emblematica per un film in cui lo sguardo viene spesso ostruito e l’orrore è tenuto quanto più a lungo possibile fuori campo: percepiamo subito l’anormalità di quella situazione, ma il compito di ricostruire quanto avvenuto di fronte alle telecamere della fittizia sit-com Gordy’s Home è affidato alla nostra immaginazione. In seguito scopriremo infatti che quella bizzarra inquadratura corrisponde alla soggettiva del piccolo attore Ricky Park, detto Jupe, nascosto sotto un tavolo di scena mentre, tutt’intorno a lui, si consumavano «sei minuti e tredici secondi di caos».
Il passato di Jupe
La vicenda di Jupe e del sanguinario ‘incidente’ sul set di Gordy’s Home sarà rievocata in un altro paio di occasioni nel corso di Nope, terza prova da regista di Jordan Peele dopo gli acclamati Scappa – Get Out e Noi, nonché la sua commistione più audace fra il genere horror, i canoni della fantascienza e – novità assoluta di questo terzo lungometraggio – l’immaginario del western. All’interno dell’indagine dei fratelli OJ ed Emeral Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer) sulla misteriosa entità che gravita nel cielo sopra di loro, la storia dello scimpanzé Gordy, protagonista eponimo della sciagurata sit-com, occupa uno spazio relativamente ristretto e delimitato ai flashback di Jupe da adulto, che ha il volto dell’attore coreano Steven Yeun. A un quarto di secolo di distanza da quegli avvenimenti, Jupe sfrutta il poco che resta della sua effimera celebrità nella gestione di un parco a tema western, Jupiter’s Claim, sito vicino al ranch degli Haywood.
Il monstrum: prodigio o monito?
A livello narrativo l’analessi di Jupe, ispirata a un reale fatto di cronaca (l’esplosione di violenza di uno scimpanzé di nome Travis), è del tutto indipendente dal plot principale di Nope; è sul piano tematico, però, che quei «sei minuti e tredici secondi di caos» si ricollegano al film di Jordan Peele, a mo’ di sineddoche imperniata sulle analogie tra lo sfruttamento dello scimpanzé, asservito all’industria dell’intrattenimento televisivo, e la spettacolarizzazione dell’ignoto e del mostruoso tentata con Jean Jacket. Il mostruoso, appunto: se nella lingua latina il monstrum indicava un prodigio di origine divina, la radice della parola derivava dal verbo monēre, ‘ammonire’. Eppure, nell’horror, i moniti sono destinati a rimanere ignorati; e Jupe, scampato miracolosamente al massacro sul set di Gordy’s Home, è convinto di poter ‘addomesticare’ il mostruoso, replicando la stessa ‘sintonia’ che, da bambino, gli aveva salvato la vita nel momento in cui Gordy, anziché ucciderlo, gli aveva offerto il suo pugno chiuso.
Il sorriso davanti all’orrore
Il Jupe adulto ostenta charme e sicurezza quando, su richiesta di Emeral, esibisce i cimeli della sit-com: il suo trauma è sepolto sotto la mise da cowboy e il sorriso da perfetto showman. Se uno dei limiti di Nope consiste probabilmente nella tipizzazione fin troppo netta dei co-protagonisti (nessuno dei quali va incontro a un’autentica evoluzione), Jupe può risultare invece il personaggio più interessante del film: come la Bette Davis di Che fine ha fatto Baby Jane?, è un ex-enfant prodige intrappolato in un passato che cerca strenuamente di tenere in vita, pur nello squallore dell’ambiente che lo circonda (un fatiscente parco-divertimenti nel polveroso entroterra californiano). In tal senso, ad essere rivelatorio è anche il modo in cui Jupe risponde alla domanda su Gordy: non racconta direttamente i fatti, ma preferisce citare il loro re-enactment in chiave di parodia, ovvero uno sketch del Saturday Night Live. In altre parole, Jupe ha rimosso quell’orrore ed è in grado di rielaborarlo solo attraverso i codici della TV.
Farsa e tragedia
Uno degli aspetti-chiave di Nope riguarda non a caso il modo in cui i media e le dinamiche dello spettacolo hanno modellato il nostro ruolo di spettatori e perfino il nostro modo di guardare la realtà: la vera quest del film, in fondo, non è tanto la “caccia al mostro”, quanto il conseguimento della “scena alla Oprah”, la sequenza perfetta. E per Jupe, che nel sistema dello showbiz ci è letteralmente cresciuto, il trauma infantile è ridotto a pura exploitation, a un passatempo per famiglie. Dopo l’ultimo flashback, il più ampio e dettagliato (ma in cui la violenza di Gordy è comunque obliterata alla vista), il primo piano di Steven Yeun è una maschera raggelante nella sua impassibilità. Da lì a breve Jupe si cimenterà su un altro ‘palcoscenico’, davanti a una platea semivuota (e a una donna dal volto sfigurato, macabro memento della furia di Gordy), e oserà invocare un’altra ‘bestia’. E proprio la sua hybris, quello sguardo improvvidamente diretto verso il cielo, sfocerà in un esito ineluttabile, convertendo ancora una volta la farsa in tragedia.