Il film: Hollywoodgate, 2023. Regia: Ibrahim Nash’at.
Genere: documentario. Durata: 92 minuti. Dove l’abbiamo visto: alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, in lingua originale.
Trama: Un giornalista tedesco in Afghanistan ottiene il permesso per seguire un gruppo di talebani, a patto che faccia esattamente quello che gli dicono.
“Da bambino ho incontrato molte persone che vedevano i talebani come eroi. Durante gli anni dell’adolescenza ho messo in discussione tale convinzione e ciò mi ha fatto approdare al giornalismo. Da allora, ho lavorato in tutto il Medio Oriente e in Europa filmando i leader mondiali. La maggior parte di queste persone erano uomini semplicemente desiderosi che io fossi un portavoce della loro prospettiva e un amplificatore del loro messaggio. Quando i talebani sono saliti al potere (ancora una volta), sono rimasto scioccato. Cosa sarebbe successo al popolo afghano? La cosa mi tormentava. Grazie al mio background e alle mie esperienze professionali, mi sono chiesto se avrei potuto avere accesso ai talebani. Se così fosse stato, questa volta avrei mostrato al mondo ciò che loro volevano che vedessi e, cosa più importante, ciò che ho visto personalmente.” Così Ibrahim Nash’at spiega, nel catalogo dell’80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, la genesi dell’affascinante progetto che ha inaugurato la componente non-fiction del Fuori Concorso della kermesse per il 2023, e di cui parliamo nella nostra recensione di Hollywoodgate.
La trama: inchiesta o propaganda?
Nash’at mette le mani avanti fin da subito: con l’aiuto di un interprete, è riuscito a ottenere il permesso di seguire un gruppo di talebani a Kabul, per l’esattezza quelli che si erano impossessati del complesso di Hollywood Gate, ex-base militare americana. Il permesso è stato concesso a una condizione: il regista può filmare solo ciò che è approvato dai suoi interlocutori, pena la morte (“Se ci fa fare brutta figura lo uccidiamo”, dice uno dei diretti interessati a un collega scettico). In particolare, a dettare legge in quella zona è Malawi Mansour, il nuovo capo dell’Aeronautica, e così inizia un anno di riprese durante il quale Nash’at è perennemente incastrato fra quello che può effettivamente mostrare e quello che vorrebbe svelare, ossia il desiderio del regime di apparire come una forza liberatrice. Le due cose si combinano, a loro modo, nel resoconto di ciò che il giornalista tedesco ha visto nel corso di quei lunghi, tesissimi dodici mesi a Kabul.
Il cast: la voce dell’invisibile
Al centro di tutto c’è il già menzionato Mansour, colui che decide di tutto e tutti in questo spazio un tempo controllato dagli americani e ora in mano al regime talebano. Ma la presenza più importante è quella che non abbiamo il diritto di vedere, quella del regista, il cui ruolo si riduce a una voce narrante esplicativa in alcuni punti strategici per contestualizzare il tutto e chiarire la natura volutamente frammentaria e contraddittoria di un’operazione che nella mente del “committente” è propaganda allo stato brado ma in quella del cineasta è la messa a nudo della medesima propaganda, con tensioni e dubbi che si accumulano nel corso dell’anno intero che lui ha passato in quella base militare.
Volutamente fragile
Dietro le porte di Hollywood Gate si celano 92 minuti di fuori campo, di non detti, di sottotesto che mettono in evidenza le fragilità visive (volute) dell’operazione e ne amplificano la potenza etica, con il regista che espone fin da subito il meccanismo propagandistico (difficilmente i talebani, dovessero mai vedere il film, saranno felici di sapere che ci sono le varie scene in cui minacciano di ucciderlo se li mette in cattiva luce). È un film che esiste in uno perenne stato di limbo, sospeso, come dice Nash’at nella sequenza d’apertura, tra le ambizioni politiche del regime e quelle giornalistiche di lui. Le imperfezioni contribuiscono in maniera fondamentale al fascino di un progetto che fa del paradosso la sua ragion d’essere, trasformando un anno di menzogne e doppio gioco in un’ora e mezza di momenti al contempo esilaranti, illuminanti e agghiaccianti.
La recensione in breve
Inchiesta sulla propaganda che a sua volta, per certi versi, diventa propaganda, il film di Ibrahim Nash'at è un'affascinante indagine sul potere delle immagini al servizio di un regime dittatoriale.
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Voto CinemaSerieTV