Il film: Road House, 2024. Regia: Doug Liman. Genere: Thriller, Azione. Cast: Jake Gyllenhaal, Lukas Gage, Joaquim De Almeida, Daniela Melchior, Billy Magnussen. Durata: 121 minuti. Dove l’abbiamo visto: Su Prime Vide, in anteprima stampa.
Trama: Un ex peso medio professionista delle arti marziali miste (Jake Gyllenhaal) finisce a lavorare come buttafuori in un locale della Florida frequentato da spacciatori, papponi e ubriaconi molesti.
In principio fu il film Il duro del Road House di Rowdy Herrington; uscito nelle sale nel corso del 1989, chiuse idealmente il decennio con un thriller d’azione sopra le righe, disimpegnato e funambolico impreziosito da un Patrick Swayze che si stava costruendo una carriera attoriale post-Dirty Dancing come nuovo sex symbol e “duro di Hollywood”. A circa 35 anni di distanza dal primogenito, il regista Doug Liman decide di accettare l’offerta di Amazon ed MGM Studios e si occupa dietro la macchina da presa del remake Road House, con protagonista un pompatissimo Jake Gyllenhaal.
Nella nostra recensione di Road House, in arrivo in esclusiva sul catalogo cinematografico di Prime Video da giovedì 21 marzo, vi racconteremo perché il rifacimento contemporaneo della pellicola cult di fine anni ’80 non funziona su più livelli ed ambizioni, lasciando una sensazione diffusa di malcontento e di occasione mancata. Per fortuna che c’è Jake Gyllenhaal e il suo carisma davanti la macchina da presa, altrimenti attesteremmo Road House come una delle prime, grandi delusioni cinematografiche del 2024.
Dal Missouri alla Florida: questione di remake
James Dalton è un ex peso medio professionista delle arti marziali miste che lavora nella sicurezza di un club di New York City. Sebbene stoico e calmo, Dalton è tormentato dal ricordo di un uomo che ha ucciso per legittima difesa squarciandogli la gola. Quando Frankie (Jessica Williams) recluta Dalton per occuparsi della sicurezza nel suo club, il Double Deuce in Florida, ha intenzione di investire ingenti fondi nel club fatiscente e ha bisogno delle competenze altamente apprezzate di Dalton per affrontare la violenza endemica e la clientela rude. Dalton accetta in cambio della piena autorità sulle operazioni del club, licenziando immediatamente diversi dipendenti per cattiva condotta, furto e spaccio di droga. Così facendo però si metterà contro il signore del crimine della zona, Knox (Conor McGregor), controlla l’area attraverso corruzione, intimidazione e violenza.
Se il film originale diretto da Rowdy Harrington si svolgeva nel profondo Missouri, il remake affidato a Doug Liman si sposta da New York City alla Florida, sfondo delle più concitate scene d’azione del film prodotto da Amazon Studios ed MGM. Che a conti fatti, funzionerebbe anche alla perfezione se fosse stato un prodotto originale e senza pretese, quando invece Doug Liman prova ad omaggiare a più riprese il cult del 1989 cercando di farci dimenticare al più presto il carisma discreto del compianto Patrick Swayze. Non ci riesce, ovviamente.
Can che abbaia… morde!
A ben guardarlo, Road House è più un remake destinato al vasto bacino di spettatori contemporaneo che non al pubblico di nostalgici della generazione precedente che in un certo qual modo era cresciuto nel corso degli sfavillanti ed energici anni ’80 e che, sul calare di quel decennio senza precedenti, aveva visto al cinema il divertente Il duro del Road House con Patrick Swayze. Quel lungometraggio tutto adrenalina, cazzotti, corpi maschili in bella vista, machismo dell’ultima ora ed irresistibile colonna sonora elettronica del periodo, non fu ben accolto dalla critica di settore dell’epoca, ma grazie ad una solida fan base di appassionati e di spettatori di nicchia, riuscì negli anni successivi a crearsi una nicchia sfegatata, divenendo così uno degli ultimi cult degli anni ’80.
C’è dunque da chiedersi qual è la funzione primaria del Road House diretto da Doug Liman e con protagonista Jake Gyllenhaal. Perché a trentacinque anni di distanza dal lungometraggio di Herrington, non rimane altro che un racconto per grande (o piccolo?) schermo tutto muscoli, azione incontrollata e carisma divertito del suo protagonista. Ma tutto questo, seppur lodevolmente incorniciato all’interno di un quadretto da B-Movie da piattaforma di streaming, non può e non deve bastare, perché fine a se stesso, in ultima analisi.
Neanche Jake Gyllenhaal riesce a salvare il Road House
Fine a se stesso perché privo di ragion d’esistere. Il lungometraggio del 1989, seppur impostato senza alcuna pretesa artistica sulla frequenza del B-Movie scanzonato, aveva dalla sua la figura attrattiva e magnetica di Swayze come ultimo delle più grandi icone del cinema americano degli anni ’80; lo stesso volto davanti la macchina da presa che nel 1987, due anni prima dell’uscita nelle sale di tutto il mondo de Il duro del Road House, aveva incantato una platea di spettatrici femminili con i suoi sensuali passi di danza in Dirty Dancing di Emile Ardolino. E che qui, nel ruolo di un biondissimo duro tutto muscoli e giustizia, si metteva in gioco per non cadere nuovamente nella trappola del typcasting (l’anno successivo a Road House prese parte a Ghost – Fantasma, e fu successo planetario).
A Jake Gyllenhaal, seppur fisicamente adeguato per il ruolo di James Dalton (sul set del remake di Doug Liman ha trascorso la maggior parte del tempo a far parte di risse violente e a mani nude, provocandosi addirittura una pericolosa infezione da stafilococco) tutto questo non serve, perché non è un personaggio dello star system americano necessitato a dover trasformare la sua carriera professionale e a dover a tutti i costi allontanarsi dal pericolo typecasting. Gyllenhaal è da decenni uno dei più sottovalutati interpreti della sue generazione, e in Road House dimostra ancora una volta di possedere un raro talento nel sapersi immedesimare con leggerezza, autoironia e grande professionalità in ruoli psicologicamente e fisicamente impegnativi; forse l’unico barlume di attrattiva in un remake superficialmente godibile che non riesce però a fare il passo decisivo verso lo status di cult movie, come accadde per il suo precedessore del 1989.
Era meglio Patrick Swayze?
Tutta colpa di Amazon Studios e di MGM? Non necessariamente, anche perché il Road House di Doug Liman in arrivo sulla piattaforma di streaming a partire da giovedì 21 marzo, attrarrà un discreto numero di utenti, principalmente interessati al corpo, ai muscoli e al carisma in scena del suo protagonista, per poi però ritrovarsi di fronte un action thriller paradossalmente vuoto ed ordinario, da dimenticare minuti dopo averlo visto per la prima volta. E per un prodotto di puro intrattenimento, sulla carta, non c’è nulla di male in questo.
Peccato però che Road House, orgogliosamente remake di un action che tutto sommato fece scuola, non raggiunge l’obiettivo che avrebbe dovuto prefissarsi: farci dimenticare il lungometraggio con Patrick Swayze e dare vita ad un nuovo film che potesse sostenersi indipendentemente sulle proprie gambe e con una forte identità cinematografica ancorata alle tendenze contemporanee dell’industria dello star system attuale. Dove inoltre Jake Gyllenhaal è particolarmente sprecato.
La recensione in breve
Il remake del film cult degli anni '80 Il duro del Road House non raggiunge l'obiettivo che avrebbe dovuto prefissarsi: farci dimenticare il lungometraggio con Patrick Swayze e dare vita ad un nuovo film che potesse sostenersi indipendentemente. E qui anche Jake Gyllenhaal è particolarmente sprecato.
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