Titolo : Robbie Williams Regia: Joe Perlman. Genere: biografico, musicale. Cast: Robbie Williams, Ayda Field Durata: 4 episodi da 50 minuti circa. Dove l’abbiamo visto: In anteprima su Netflix.
Trama: Dopo 25 anni di carriera da solista costellata da record, Robbie getta uno sguardo a quando era più giovane e riflette su una vita passata, segnata da trionfi e primati, ma anche dalla dipendenza da droghe e alcol.
Ancora una miniserie biografica dedicata a un eroe degli anni ’90? Sì, tecnicamente Robbie Williams, disponibile su Netflix dall’8 novembre è anche questo. Ma è soprattutto una grande seduta psicanalitica senza mediazioni. Nel lavoro diretto da Joe Pearlman (autore, tra le altre cose, di Harry Potter 20th Anniversary: Return to Hogwarts) Robbie Williams si mette letteralmente a nudo. Ma non è l’oggetto di “studio” del regista, quanto una sorta di testimone delle sue stesse disavventure, che racconta vedendole sullo schermo di un Mac, raccontandole in prima persona. Come vedremo nella nostra recensione di Robbie Williams, questo impercettibile slittamento del punto di vista rende la miniserie interessante e meritevole di essere vista.
La trama: un uomo allo specchio
La tempesta è passata. Robbie Williams, quarantanovenne di Stoke on Trent, anima ribelle dei Take That, marito felice e padre di quattro figli è un sopravvissuto. Egli è vivo e in grado di raccontare un’esistenza di successi e cadute, amori e gossip. Segnata da terribili dipendenze da alcol e droghe e da una depressione anticipatrice di una crisi che lo ha stritolato nel bel mezzo di un concerto che ne ha cambiato la vita. In short e canottiera, come un uomo qualunque, questa pop star ormai imbiancata, si siede sul letto della sua bellissima casa, apre il Mac, e inizia a guardare tutte le riprese di cui è stato protagonista, dagli anni con i Take That, fino alla carriera da solista.
Filmati raccolti meticolosamente a mo’ di diario che oggi assumono un valore testimoniale prezioso. In certi giorni il compito per Robbie è facile e lo assolve con dedizione. Altri, come quando rivede la crisi psicotica vissuta sul palco di Leeds, è come tornare all’inferno. Williams si rispecchia in quelle immagini con la certezza di essere, ora, un’altra persona. Ma da qualche parte nel suo cuore, tra gli abbracci dolcissimi della figlia Teddy e una routine familiare agiata e senza problemi apparenti, quell’inferno c’è ancora e in qualche modo lavora sotto traccia.
Il successo è una trappola
Quando un musicista o una star del pallone come David Beckham, anch’egli protagonista di una miniserie di Netflix che vi abbiamo recensito qui, o una qualsiasi altro personaggio dello showbiz (qui la recensione di Sly su Sylvester Stallone), parla in prima persona di vita e carriera, tendiamo a credergli. Non c’è motivo per cui dovremmo dubitare di quelle dichiarazioni, di quelle confessioni. E invero c’è un certo piacere nei diretti interessati a raccontare gli aspetti più reconditi del loro animo, specialmente quelli più dolorosi, quasi come tributo al loro pubblico. Per affermare con forza di essere esseri umani.
Nel caso di Robbie Williams questo sottile piacere della confessione non c’è. C’è semmai un dolore che ancora non sembra placato. Un misto di vergogna per le cose fatte nel passato e la gioia di essere vivi. Questo spazio narrativo è l’elemento più bello del lavoro di Pearlman. Mettere un eroe di fronte alle sue “malefatte” è metterlo in una posizione di debolezza, di fragilità autentica, e ciò, se trattato con intelligenza come fatto dal regista, è piuttosto prezioso.
La rabbia giovane
Ma quali sono state le malefatte di Williams? Sicuramente l’incapacità (del tutto comprensibile in un ragazzo) a gestire una fama planetaria come quella ottenuta con i Take That, la boyband inglese che negli anni ’90 ha raggiunto la celebrità dei Beatles. Dal 1990 al 1995 Robbie e gli altri quattro membri del gruppo hanno vissuto quasi d’amore e quasi d’accordo, tenendo alta la bandiera del pop inglese. In realtà, Williams non riusciva a incastrarsi nel quintetto, perso com’era a rendere omaggio alla triade sesso, droga (e tanta birra) e rock’n’roll.
Nel 1997, due anni dopo la separazione, arriva l’incontro con Guy Chambers che segna l’inizio di una scintillante carriera da solista. E in tutte le circostanze possibili, Williams non ha perso occasione di attaccare gli ex compagni, anche in modo violento. Una rabbia incomprensibile, mista a un non meglio identificato desiderio di rivalsa, che ha di fatto bruciato Robbie. Il suo successo cresceva, quello dei Take That si affievoliva. Per sentirsi felice tanto gli bastava, oltre al grande successo con le donne, Nicole Appleton e Geri Halliwell per citarne due. Naturalmente, una felicità effimera. Frutto di una serie di circostanze fortunate, del suo indubbio talento e anche del ricorso a droghe di ogni tipo, per non parlare dell’alcol.
E oggi?
Qual è allora il valore di una produzione come questa, fatta a uso e consumo di tutte e tutti i fan del mondo? Di sicuro, come detto, c’è un’autenticità di fondo che la rende unica. Piace soprattutto il fatto che Williams stesso si sia messo sul banco degli imputati, per così dire, purificandosi in qualche modo e consegnandoci il ritratto per quanto possibile genuino in un uomo che ha pagato il suo debito al dio del successo. Questa miniserie nasce, crediamo, da un bisogno mai del tutto soddisfatto di chiedere perdono. E in effetti il volto scavato di Robbie Williams, oggi, dice tutto di un percorso che forse finalmente lo vede sereno.
Angels
Non ci sono altri testimoni se non lui, la moglie Ayda e la più grande dei figli, Teddy. Gli angeli di Robbie che gli hanno dato un motivo per vivere nel momento in cui gli restava davvero poco altro. Si tratta di una scelta narrativa strategica e alla fine giusta, per un lavoro che come detto è una grande seduta analitica dell’eroe davanti al suo pubblico. Tante volte in questa stagione ci è capitato di guardare miniserie e documentari incentrati su artisti, non ultimo il doc su Zucchero Fornaciari che abbiamo visto e recensito alla Festa del Cinema di Roma. E il timore è sempre lo stesso: trovarsi davanti a un prodotto preconfezionato, agiografico, sostanzialmente inutile.
In questo caso (come quello di Zucchero), il pericolo è stato scampato proprio grazie alla genuinità del protagonista. Genuinità, ovviamente, sempre messa in discussione, dall’intera impalcatura di un progetto che comunque nasce per glorificare Robbie Williams. Lo fa però con intelligenza e dolcezza. E allora, se un po’ ci sente affaticate dall’ennesima produzione che promette di dire tutto, rivelare tutto, non nascondere niente, non possiamo non apprezzare il coraggio con cui Robbie Williams ha parlato delle sue dipendenze, della depressione, delle psicosi. E sì, la visione di Robbie Williams, come lui stesso sperava, è traumatica. C’è qualcosa di raro qui, che va apprezzato.
La recensione in breve
La visione della miniserie su Robbie Williams soddisfa il bisogno naturale di conoscere di più della vita di un musicista che ci ha regalato tante bellissime canzoni, ma allo stesso tempo scandaglia con precisione l'abisso nel suo cuore, quelle ferite che speriamo per lui possano essere davvero guarite. Un'opera toccante, che Joe Pearlman ha diretto con mano sicura.
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Voto CinemaSerieTV