Genere: horror. Durata: 103 minuti. Dove l’abbiamo visto: al cinema, in anteprima stampa, in lingua originale.
Trama: Una famiglia deve affrontare una minaccia bestiale nei boschi.
A chi è consigliato? Agli appassionati di horror e del cinema di genere riletto da Leigh Whannell.
Dopo il remake del 2010 con Benicio del Toro, la Universal ha più volte cercato di reinventare al cinema uno dei suoi grandi classici horror, L’uomo lupo. Dopo aver valutato l’ipotesi di un film collocato in quello che doveva chiamarsi Dark Universe (defunto dopo il flop de La mummia), lo studio ha deciso di puntare su una storia a sé, sulla falsariga de L’uomo invisibile diretto da Leigh Whannell nel 2020. E proprio Whannell, dopo l’abbandono di Derek Cianfrance, si è ritrovato a firmare questa rilettura del mito del licantropo, ancora una volta in collaborazione con la Blumhouse (e Ryan Gosling, che doveva interpretare il protagonista nella versione di Cianfrance, tra i produttori esecutivi). Ed è di questa rilettura che si parla nella nostra recensione di Wolf Man.
Quella casa nel bosco
1995: un escursionista sparisce senza lasciare traccia nei boschi dell’Oregon centrale, la stessa zona dove l’eccentrico Grady Lovell sta insegnando i rudimenti della caccia al figlio Blake. Si vocifera che l’uomo scomparso sia affetto da un morbo che l’ha trasformato in una creatura che gli indigeni chiamano “la faccia del lupo”. Trent’anni dopo Blake vive a San Francisco con la moglie Charlotte e la figlia Ginger, e non ha più avuto contatti con il padre da diverso tempo. Gli arriva la comunicazione circa la dichiarazione ufficiale del decesso del genitore (anch’egli sparito misteriosamente), ed egli decide di recarsi immediatamente nell’Oregon per sistemare tutte le beghe burocratiche. Solo che nella notte una strana bestia aggredisce la famiglia, infettando Blake che quindi nel corso delle ore successive va incontro a una metamorfosi che potrebbe mettere a repentaglio tutto ciò che lui ha costruito con Charlotte…
Dramma a quattro
Escluso il prologo sull’infanzia di Blake, il film si affida essenzialmente a quattro interpreti, quasi tutti in un’unica location (un lascito della pandemia, poiché Whannell e la moglie Corbett Tuck hanno scritto la sceneggiatura nel 2020, in pieno lockdown): Christopher Abbott, Julia Garner e Matilda Firth nei panni dei tre membri della famiglia, e il performer scelto per incarnare fisicamente, sotto numerosi e impressionanti strati di trucco, il licantropo che contribuisce alla notte insonne di Blake, Charlotte e Ginger. Dramma da camera più che un horror classico (ricordiamo i toni gotici della versione del 1941 e del già menzionato remake), dove lo spettacolo – comunque presente quando necessario – cede il posto all’orrore più intimo, alla malattia (reinterpretazione moderna della maledizione che solitamente accompagna la figura del lupo mannaro) che distrugge da dentro e si manifesta all’esterno come una piaga progressiva, alimentando sul piano estetico la dimensione tragica della premessa.
Pensare in piccolo
Non c’è quel guizzo in più che caratterizzava L’uomo invisibile, film intelligentemente ancorato nel suo tempo sul piano sociopolitico e tecnologico con il suo aggiornamento degli elementi di base della storia della celebre icona horror (restituendogli anche quell’aura inquietante e cattiva che le versioni precedenti avevano edulcorato). Forse perché il licantropo, nella sua animalesca semplicità, è comunque meno reinventabile se non spogliandolo di tutti i fronzoli mitologici, cosa che Whannell fa eliminando i soliti discorsi sulla luna piena e le pallottole d’argento. Creando, di conseguenza, una pellicola coerente nella propria analisi del terrore come corpo estraneo che diventa minaccia a chilometro zero, ma anche potenzialmente frustrante per chi, date le promesse del titolo, potrebbe avvicinarsi alla visione con aspettative più vicine agli anni d’oro della Universal. Eppure, sicuramente più interessante di quello che avrebbe partorito il gruppo legato al Dark Universe.
La recensione in breve
Leigh Whannell rilegge il mito del lupo mannaro in chiave umana e minimalista, chiudendo l'orrore in una stanza nel corso di una lunga notte di tensione.
PRO
- Le interpretazioni sono tutte ottime
- Il trucco artigianale per le varie fasi della trasformazione è efficace e disturbante
- L'approccio minimalista di Leigh Whannell dà un sapore nuovo al mito del licantropo...
CONTRO
- ... ma potrebbe deludere chi preferisce un horror di stampo più classico
- Voto CinemaSerieTV