Va bene, parliamo di sesso. Anzi, parliamo di rappresentazione del sesso al cinema e nelle serie televisive. Meglio ancora, parliamo di come il cinema e le serie fatichino a raccontare coi loro codici “normalizzanti”, un’industria particolare come quella del porno, cercando di renderla più digeribile a un pubblico più ampio. La lunga introduzione ci serve come spunto per parlare di Supersex la nuova miniserie di Netflix liberamente ispirata alla vita dell’attore hard Rocco Siffredi (il bravissimo Alessandro Borghi).
Un’opera per certi versi sorprendente che ci ha colpite anche per il modo di raccontare il sesso. Rispetto a quanto ci potessimo aspettare, infatti, l’elemento fisico, ovviamente essenziale quando si parla di un personaggio del genere, viene mostrato in maniera solo all’apparenza trasgressiva. Siffredi, qui, è un eroe romantico che ha trovato nel sesso la medicina per placare l’angoscia di una vita e che alle sue inquietudini ha pagato un tributo molto alto. Certo, gli amplessi sono a volte tortuosi e stratificati, c’è molta carne al fuoco, ma ciò che rende davvero il sesso esplosivo, rivoluzionario, quella dinamite di cui parla Tommaso (Adriano Giannini), fratello di Rocco, resta inafferrabile.
Luci rosa
C’è una sequenza molto interessante in Supersex. Parte dalla morte della leggenda del porno John Holmes nel 1988. Riccardo Schicchi (Vincenzo Nemolato) e tutto il clan di Diva Futura decide di rendergli omaggio in una cerimonia intima in cui vengono proiettati alcuni dei suoi film più celebri, a partire da quello girato con Cicciolina nel 1987, Carne bollente. Quando il suo attributo compare sullo schermo (noi non lo vediamo), Schicchi dice: “In questo momento lo abbiamo reso eterno“, faticando a trattenere la commozione. L’effetto è molto divertente e anche straniante, perché l’immortalità artistica non si associa mai al porno. Invece, come tutta l’operazione Supersex lascia intendere, il cinema a luci rosse può essere la scala verso il paradiso. Talvolta può essere sporco, o evidenziare i lati più bestiali di un essere umano, ma basta raccontarlo con le giuste parole e diventa quasi arte. Si tratta di una scelta narrativa comprensibile, legata anche al fatto che non ci si possa approcciare a un materiale del genere con piglio giudicante. Eppure, questo pensiero nasconde a nostro parere qualcosa di più profondo: la tentazione di standardizzare un oggetto, il porno appunto, nato per essere fuori norma. Osceno, appunto.
Azione!
Supersex (potete leggere la recensione qui) è una serie schiacciata tra due legittime necessità. La prima è quella di raccontare la vita di un personaggio a suo modo unico, che ha sempre suscitato una genuina simpatia nel pubblico (e non solo per le sue doti). La seconda quella di fornire un ritratto sufficientemente dettagliato di un’industria cinematografica a sé, con regole ferree, che vive e prospera da sempre grazie alla ricerca del piacere da parte del pubblico. Partiamo subito da qui per capire quanto tranquillizzante sia Supersex. E dalle parole di Riccardo Schicchi (sempre lui) che introducendo Rocco ai piaceri degli show dal vivo di Moana Pozzi (Gaia Messerklinger) gli rivela una verità importante: chi vuole Moana insegue il sogno.
In questa piccola battuta c’è un intoppo inconsapevole. Sogno? Desideri? Forse Schicchi imbelletta troppo la realtà dei fatti e trasforma in maniera poetica una questione decisamente più carnale. Il suo, in fondo, è stato un impero fondato sull’onanismo e non sulla ricerca utopica di un ideale femminile antitetico a quello delle mogli casalinghe. O forse è l’atavico problema della raffigurazione di un genere ritenuto sconcio all’interno di un racconto mainstream. Ripulirlo troppo, come in questo caso, fa perdere quel sano senso di ribellione. Spingere sull’acceleratore e sul cattivo gusto, al contrario, porta a censure.
Je suis Rocco
E arriviamo dunque all’esigenza di narrare la vita di un artista che ha rischiato l’alienazione, ma che è stato capace di trovare un equilibrio fra il lavoro e la famiglia. Il Rocco Siffredi di Supersex è un uomo alla ricerca di sé stesso, quasi soverchiato dal personaggio che ha creato. Un personaggio che spiega ogni singolo sentimento provato (o non provato) attraverso una voce fuori campo dall’effetto molto straniante. E in questo continuo scandire, razionalizzare e sottolineare le sue sensazioni ne raffredda il racconto, facendo emergere gli elementi più dissonanti. Applaudiamo, allora, i registi Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni e la sceneggiatrice Francesca Mainieri per essersi imbarcati in un’impresa molto complessa. È una bella sfida, o se volete una bella rogna, provare a raccontare un mondo così particolare come quello del porno con la giusta distanza.
Perché Supersex anche questo è, una sorta di diario di bordo di un attore la cui vita è stata per forza di cose stravolta dal suo lavoro. Tanto da perdere di vista i confini che naturalmente si pongono per evitare di andare in mille pezzi. Il problema, però, quando si affronta un tema così peculiare, è banalizzare troppo, come detto. O, al contrario, esagerare. Il team creativo di Supersex allora ha scelto una terza strada, quella della romanticizzazione dell’eroe. Il quale non fa sconti a sé stesso né cerca assoluzioni, ma agisce come spinto da un impulso irrefrenabile a essere così. Nonostante il crocifisso indossato, la ricerca continua di approvazione da parte della mamma e del vero grande amore (che si manifesta nella merenda preparata nel caso sul set gli venisse fame). Supersex, insomma, è una serie più pop e romantica che scandalosa, su un personaggio (scritto bene) che non fa sconti a sé stesso mai. Ma che alla fine ci appare come una figura un po’ statica.